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Le meraviglie – Recensione

Unico film italiano in concorso alla 67ma edizione del Festival di Cannes, Le meraviglie di Alice Rohrwacher è prima di tutto una favola, anche se di favola sui generis si tratta.
“Una fiaba materica ma anche dura, con un re, una regina e quattro figlie”: sono perfette e colgono esattamente l’essenza dell’opera le parole che la giovane regista ha usato per definirla.
Gli occhi della più grande delle figlie di una strana famiglia, l’adolescente Gelsomina (Maria Alexandra Lungu), sono lo sguardo attraverso il quale ci viene raccontata la storia. La famiglia vive in campagna, in una specie di regno quasi fuori dal mondo dominato da un padre apicoltore di origini tedesche. I giorni di un’estate particolare passano tra la cura delle api e la paziente raccolta del miele. A minare gli equilibri della routine familiare, la tentazione di un concorso a premi indetto da una trasmissione televisiva  sulla vita di campagna, “Il paese delle Meraviglie”, condotta dalla “fata bianca” Milly Catena (Monica Bellucci) e l’arrivo di Martin, un ragazzino tedesco a rischio criminalità che viene affidato dai servizi sociali alla famiglia.
Non c’è dubbio che la fiaba della Rohrwacher, alla sua seconda regia dopo l’apprezzato Corpo celeste del 2011 (presentato sempre a Cannes nella sezione Quinzane des réalisateurs), abbia una duplice natura: da un lato è fortemente intrisa di realismo, dall’altro se ne distacca per percorrere territori più magici, a tratti quasi onirici. “Fiaba realista” sembra essere quindi la definizione più calzante per un’opera molto personale (anche non se non prettamente autobiografica come ha tenuto a precisare Alice Rohrwacher) in cui i ricordi d’infanzia della regista e di sua sorella Alba (che nel film ha il ruolo della madre dell’adolescente Gelsomina) vengono a galla. Le due sorelle Rohrwacher hanno vissuto realmente in una casa di campagna vicino Orvieto, dove il padre tedesco faceva l’apicoltore e la mamma l’insegnante di lettere alle scuole medie. Le atmosfere in cui la regista è cresciuta vengono qui ridisegnate come in un acquerello: una famiglia allargata, multilingue (un padre tedesco che comunica in italiano con difficoltà), sospesa tra un passato a cui è fortemente legata (le utopie della cultura hippie, gli ideali di una generazione che cullava sogni di libertà) e un presente rappresentato dai sogni di un’adolescente e figli della televisione (qui esemplificati da una specie di reality show bucolico sulle meraviglie naturali, una gara tra contadini, allevatori e apicoltori, condotto da una fata con le fattezze ammalianti di una Monica Bellucci dal look total white).
Come nel suo precedente film, la regista torna a focalizzare il suo sguardo su un’adolescente che sgrana i suoi occhi verso il mondo che le sta intorno e si accorge improvvisamente che le sta stretto.
Ma la pellicola, pur costellata di momenti di suggestione e epifanie improvvise (lo svelamento finale di un cammello in giardino), non imbocca una strada precisa restando così sospesa in un limbo a metà strada tra realismo e simbolismo.
Un padre burbero, delle figlie libere ma dal destino quasi già deciso (probabilmente saranno apicoltrici o contadine), una madre che tenta di mantenere in piedi l’unione con un uomo difficile, ecco una famiglia che ha scelto di vivere in un universo isolato e rigorosamente a contatto con la natura incontaminata dove il mondo esterno irrompe prepotente attraverso la televisione (siamo negli anni ‘90, le immagini della trasmissione-fenomeno “Non è la Rai” e della teen-star Ambra che canta “T’appartengo” affascinano occhi e orecchie delle sorelline). La televisione che ammalia la protagonista è però più genuina, più locale, più ruspante.  Proprio grazie all’avventura nel “Paese delle Meraviglie”, Gelsomina cresce, diventa adulta, si scontra col padre, forse si innamora per la prima volta.
Le meraviglie è una piccola saga familiare, che, pur girata con buona mano, non è esente da qualche difetto, come un incipit che stenta a decollare e alcuni momenti di stanchezza nella parte centrale. Le scene migliori restano quelle più oniriche e surreali, in cui il grottesco si mescola alla tenerezza, come nell’abbraccio collettivo finale su un materasso sotto le stelle.
Una favola rurale delicata, lieve, ma dal meccanismo un po’ fragile e non perfettamente oliato, cucita addosso a una giovane (la bravissima Maria Alexandra Lungu) che ha il nome di un fiore in procinto di schiudersi al mondo.

Elena Bartoni
 

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