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Le Streghe di Salem – Recensione

Dopo aver diretto quattro horror e un cartoon per adulti, la star heavy metal Rob Zombie torna a cimentarsi nella regia e si confronta per la prima volta con una tematica genuinamente soprannaturale. Al centro, a grandi linee, l’eterno conflitto tra Dio/regola/oppressione e Satana/istinto/libero arbitrio. Heidi Hawthorne (Shery Moon Zombie) è una popolare dj e lavora in una radio della città di Salem. Reduce dall’inferno della tossicodipendenza, ancora si dibatte per liberarsi del tutto dalla droga. Un giorno riceve in regalo una misteriosa scatola di legno, speditale da ignoti che si firmano “I signori” e contenente un disco in vinile. Esso suonerà al contrario evocando in lei tragiche immagini da un tempo passato, e in breve prenderà possesso della sua mente. Le streghe, un tempo perseguitate a Salem, l’hanno scelta per il ritorno in terra del loro Oscuro Signore. E’un Rob Zombie insolitamente implicito ed interiore, per non dire pacato. Parte dalla descrizione degli ambienti e dei personaggi, lasciando che l’orrore si insinui gradualmente tra le pieghe della storia, e circoscrive la violenza efferata a isolati soprassalti visionari. Nella seconda parte l’impeto ribelle di fondo si fa sempre più dichiarato e viscerale, fino alla conclusiva profusione di simbolismi osceni e furore iconoclasta. I realtà il significato di questo strano film è abbastanza difficile da decifrare. Non si sa se definirlo anti-clericale e provocatorio, come parrebbe a una prima visione, o piuttosto il riflesso di pulsioni subconsce che non esprimono necessariamente una posizione. Certo il Rob Zombie regista e sceneggiatore continua a portarsi dietro  diversi difetti, dai quali probabilmente non si emanciperà mai. Tende a divagare compiaciuto, cade spesso nella ripetitività e nel prolisso, sfida il ridicolo a viso aperto (ardore in teoria sacrosanto nell’atto creativo) e nel farlo talvolta le prende più che darle.  Conferma, è vero, di sapere in fatto suo nel conferire un fascino straniante alle atmosfere e nel travasare la solennità nel macabro (l’ultima apparizione della protagonista, vedi locandina, ne è un esempio). Gli va inoltre riconosciuto di aver saputo integrare meglio del solito l’abituale citazionismo cinematografico negli sviluppi della narrazione. Eppure sembra trascurare anche le proprie virtù come se, coerente al genere musicale da lui praticato fin da ragazzo, se ne infischiasse di piacere alla maggior parte del pubblico. Forse rimarrà sempre troppo personale ed emotivo per essere un regista di genere, se non un regista nel vero senso del termine. Gli eventuali spettatori cristiani praticanti rimarranno perplessi più che offesi o scandalizzati, gli altri lo troveranno come minimo poco commerciale. Merita un’occhiata l’onnipresente Shery Moon, splendida quarantaduenne in un ruolo di trentaseienne, disposta ad imbruttirsi per seguire il degrado fisico e psichico del personaggio.

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