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L’intrepido – Recensione

L’intrepido, il coraggioso, il positivo, il sognatore, questo è Antonio Albanese, nella pellicola con il cognome Pane, un personaggio chapliniano eterno precario, portato sullo schermo dal regista Gianni Amelio ed accolto con pareri contrastanti, ma pur sempre una pellicola realista che si affaccia senza giudicare troppo, sul mondo e sulla crisi di oggi.

Antonio Pane (Antonio Albanese) è un quaranta cinquantenne, vive a Milano e si guadagna da vivere facendo ancora dei lavori saltuari. Divorziato con un figlio ventenne, Ivo (Gabriele Rendina) che suona in una band come sassofonista, Antonio tira a campare facendo l’eterno sostituto.

Rivolgendosi ad un pubblico giovane ed adulto il regista ha voluto portare sullo schermo una parabola di vita comune. Precarietà e l’accontentarsi di una misera paga per sopravvivere è il tema fondamentale affrontato da Amelio, che ha voluto mettere a confronto due generazioni, mostrando le differenza nell’affrontare la situazione di disagio e gli ostacoli della vita.

Antonio come Ivo e Lucia (Livia Rossi), la ragazza che conosce ad un concorso di assunzione sono tutti senza lavoro o precari: Ivo fa il sassofonista ed è il simbolo del ragazzo che dopo aver studiato (al Conservatorio), nonostante sia bravo con il suo sax non ha ingaggi fissi e il panico si impadronisce di lui ogni volta che deve salire sul palcoscenico.

Lucia è l’unico personaggio del film, misterioso, che appare sempre sullo schermo con un’aria triste e malinconica, ma non sapremo mai il perché: nonostante la giovane età sembra che la depressione si sia impossessata di lei.

Antonio è l’unico che rappresenta e sprigiona positività, personaggio che ricorda molto proprio il Charlot di Charlie Chaplin. Si adatta ad intraprendere qualsiasi tipo di lavoro, come il vagabondo chapliniano è povero in canna, ma sempre alla ricerca di un lavoro, nonostante abbia poco per mantenersi e generoso e pensa agli altri e la figura di Lucia, potrebbe essere facilmente accostata a quella della fioraia cieca di cui si innamora Charlot in “Luci della città” (1931).

Il positivismo, il vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto e l’apprezzare le cose semplici sono la chiave del successo di questo personaggio, descritto ed interpretato da Antonio Albanese in maniera estremamente delicata, calibrando gli atteggiamenti e il tono di voce: l’opposto dei personaggi solitamente da lui interpretati.

Dialoghi a parte ed una Livia Rossi, probabilmente ancora un po’ acerba, il film è risultato soddisfacente una dramedy ben calibrata, un esperimento di Amelio, riuscito per tre quarti dell’opera.

Alice Bianco

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