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L’intrepido – Recensione (2)

Forse si, forse davvero nell’Italia di oggi dobbiamo essere tutti un po’ “intrepidi”.
L’intrepido di Gianni Amelio, presentato in concorso alla 70ma Mostra del Cinema di Venezia,  è, per ammissione dello stesso regista, un film fatto non tanto per respirare “l’aria del tempo” quanto piuttosto “per trattenere il fiato” perché l’aria è davvero irrespirabile in tempi di crisi nera con il dramma crescente del lavoro che c’è sempre meno. Una cosa è certa, L’intrepido è un film anomalo nella filmografia del regista, uno sguardo sofferto, surreale e a tratti struggente sull’Italia contemporanea.
Antonio Pane (Antonio Albanese) è un uomo che per tirare avanti fa un mestiere definibile come “rimpiazzo”. Non ha un lavoro fisso e per questo si presta a prendere, anche solo per qualche ora, il posto di chi si assenta, per diverse ragioni, dalla propria occupazione. Antonio si accontenta di poco perché per lui i soldi non sono tutto nella vita; c’è anche l’amore per suo figlio Ivo (Gabriele Rendina), un talentuoso sassofonista, ritenuto fortunato perché può vivere del proprio talento. Un giorno Antonio incontra per caso Lucia una giovane malinconica e inquieta che cela uno stato di sofferenza profonda. L’amicizia con la ragazza porterà Antonio a realizzare che non sempre “offrirsi” è il modo per aiutare e sostenere chi ami.
Operaio, animatore per bambini, aiuto cuoco, tramviere, ma non solo, Antonio fa di tutto: attacca manifesti di notte, consegna pizze a domicilio, lavora in una lavanderia industriale, scarica pesce al mercato, pulisce gli stadi, vende rose nei ristoranti. Il nostro campione di “rimpiazzi” è un eroe di tutti i giorni, erede diretto dei personaggi interpretati da mostri sacri come Sordi e Tognazzi. Un nuovo Eroe dei nostri tempi che, come nel film di Monicelli, affronta in chiave ironica i problemi dell’Italia di oggi rifiutando qualsiasi forma di rassegnazione. Per voce di Antonio, un personaggio buono, generoso, altruista fino al midollo, il regista non imbocca la strada della lamentela fine a sé stessa sull’impossibilità di cambiare la realtà. Nel momento in cui manca lavoro, c’è questo strano animale metropolitano disposto a fare tutti i lavori.
Ritrovando la stessa forza di radicarsi nel presente di suoi film come Il ladro di bambini e Lamerica e realizzando il sogno accarezzato da tempo di lavorare con Albanese, Amelio punta al superamento della cronaca dell’oggi per approdare a un tentativo ottimista di respirare aria nuova. Lo stesso titolo va in questa direzione: L’intrepido, come il celebre giornalino a fumetti, indelebile ricordo d’infanzia del regista di cui ha mutuato la trasposizione in senso metaforico. E in effetti il protagonista assomiglia davvero un po’ a un fumetto, ha la stessa leggerezza, lo stesso spirito avventuroso, lo stesso ‘eroismo’ un po’ picaresco dei personaggi di quel giornalino.
Cinematograficamente evidenti sono i debiti al protagonista del capolavoro di De Sica Miracolo a Milano ma chiara è anche la strizzatina d’occhio a certe parabole di Frank Capra. Il protagonista Antonio, cui presta il volto uno straordinario Antonio Albanese sembra davvero un Charlie Chaplin di questi nostri cupi Tempi moderni che si muove in una Milano grigia e straniante. La perfetta aderenza dell’attore al suo personaggio è ulteriormente convalidata dalla scelta non casuale del nome, Antonio, a confermare il legame a doppio filo tra personaggio e interprete.
Il film si regge interamente sulla performance dell’attore al cui fianco non possiamo non notare due sorprendenti esordienti, Gabriele Rendina nei panni del talentuoso figlio Ivo e Livia Rossi che offre intensità al personaggio di una misteriosa e dolente giovane donna.
Ma non c’è spazio per la rassegnazione in quest’opera dalla dimensione a tratti surreale (bella la sequenza nel negozio di scarpe che conserva una montagna di scatole vuote dove il protagonista si presta a fare il commesso), ma quello per la lotta: a non morire mai è proprio il sentimento di speranza che attraversa come un filo rosso tutta la pellicola. Speranza che va di pari passo con il rispetto per l’essere umano e la difesa appassionata della sua dignità. Perché per sopravvivere bisogna “fare”, sempre e comunque, nonostante tutto.
Valori alti per un cinema sincero e autentico, di grande spessore morale, diretto, seppur con qualche caduta nei dialoghi e con qualche carenza dal punto di vista del coinvolgimento emotivo, dalla mano delicata di un regista tornato a raccontare l’Italia più vera.

Elena Bartoni
 

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