Lo chiamavano Jeeg Robot – Recensione
L’omonimo gigante d’acciaio, non indegno di Goldrake e Mazinga nel rappresentare i ricordi di una generazione, è il leitmotiv morale e non solo di questa fantasia urbana squisitamente (avverbio dovuto) made in italy. In una Roma contemporanea sferzata dall’incubo del terrorismo, il piccolo delinquente Enzo (Claudio Santamaria) conduce una mesta e solitaria esistenza. Grazie al casuale contatto con sostanze tossiche, acquisirà forza e resistenza sovraumane, e sarà così unico sopravvissuto in un “lavoretto” finito tragicamente. Prenderà con se la giovane figlia del “collega” rimasto ucciso, sofferente di problemi mentali dopo la morte della madre ed ossessionata dalla figura di Jeeg Robot. La ragazza lo identificherà con il suo eroe animato, facendogli capire il valore del coraggio e dell’immaginazione. Intanto lo Zingaro, spietato capetto criminale, incombe come antagonista malvagio della situazione. Il regista Gabriele Mainetti sfrutta come spunto di partenza il dramma criminale di ambiente romano, servendosene per due principali obiettivi: rielaborare in chiave nostrana i modelli statunitensi, connotandoli di una sensibilità italica ed europea, ed inserirsi a modo proprio in quel recente filone che rilegge da nuove angolazioni l’icona del supereroe (Unbreakable, Chronicles, sebbene si possa aggiungere l’italiano “Il ragazzo invisibile” di Salvatores). Tutt’altro che secondario è il versante della commedia nera, in cui la violenza efferata si colora di una sinistra ironia senza disdegnare i dettagli macabri. Sotto tale aspetto non siamo lontani da Pain & Gain di Michael Bay, se non fosse che la mescolanza dei due ingredienti è qui più mimetica e meno marcata, per certi versi più coraggiosa. Nonostante qualche ingenuità, ed una lontananza dai clichè non sempre mantenuta a dovere, le ambizioni del film si concretizzano in gran parte, soprattutto per merito dell’indiscutibile estro di Mainetti. Fertile libertà nel registro espressivo, con ritmo sciolto ben sostenuto dal ricorso al piano sequenza ed al dolly, ottimi effetti speciali, uso creativo del turpiloquio e delle citazioni cultural-generazionali. Tra colpi di scena ben piazzati e scoppi di crudeltà mai banali, alcune parentesi di tenera poesia (la ruota panoramica) ed una caratterizzazione dei personaggi più complessa e profonda di quel che si potrebbe pensare. Da non perdere la performance di Luca Marinelli, cattivo tanto ferocemente istrionico da suscitare quasi simpatia, contrapposto all’ombrosa introversione del “buono” Santamaria. Non è da meno Ilenia Pastorelli, dolce personalità tormentata, comica e tragica al tempo stesso. Difficile parlare di un ritorno al cinema italiano di genere che conta, il prodotto è legato alla nostra cultura e non è forse particolarmente esportabile. Può essere, chissà, il primo passo decisivo.