Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato – Recensione
Da dove cominciare… Forse bisognerebbe partire da un antefatto fondamentale.
Quando Guillermo del Toro decise di lasciare la regia de Lo Hobbit, continuando a lavorare al progetto in qualità di co-sceneggiatore, molti accolsero con notevole entusiasmo il ritorno di Peter Jackson, come garanzia di impeccabilità e successo. Questo perché il lavoro titanico fatto con la trilogia de Il Signore degli anelli, aveva posto sul capo del regista una nomea importante, ovvero quella dell’unico e solo in grado di trasporre per il cinema l’opera omnia del maestro indiscusso del fantasy, J.R.R. Tolkien. Se George Lucas è stato, per ben trentacinque anni, sotto scacco dei milioni di fan inferociti della saga di Guerre Stellari, il fandom altrettanto nerd dei tolkeniani si è distinto, invece, per l’enorme pazienza e fiducia nel suo “capo banda”, impazienti di capire se le enormi aspettative riposte, sarebbero state ripagate. Chi scrive è stata abbondantemente ripagata.
A dieci anni di distanza dal primo viaggio nella Terra di Mezzo, il film riflette nello sguardo dello spettatore quell’amore e dedizione incondizionata di Peter Jackson per l’universo creato da Tolkien, facendoci vivere una esperienza che nelle primissime immagini ha il sapore di una riunione fra vecchi amici con i quali ci si rincontra dopo tanto tempo. Elijah Wood (anche se per un brevissimo cameo), Ian McKellen, Cate Blanchett, Hugo Weaving e un mastodontico Christopher Lee, sono quella base solidissima e avallo di continuità, della quale Jackson aveva bisogno, come lo sono allo stesso tempo le splendide musiche di Howard Shore (capace di stupire i fan più fedeli con amarcord nei temi principali, i quali fungono da raccordo con la precedente trilogia). Il giovane Martin Freeman è un degno erede del “vecchio” Bilbo Baggins, alias Ian Holm, indifferente fifone prima e indomito impavido poi.
Non basterebbe un capitolo a parte per analizzare quella summa poetica e psicoanalitica che si cela dietro il personaggio di Gollum, che rivive nello schermo, ancora una volta, grazie alle movenze di Andy Serkis. Lo splendido modello tridimensionale utilizzato per la motion capture ne Il Signore degli anelli, è stato ulteriormente migliorato negli shaders e nelle texture, ovvero tutte le componenti necessarie per aumentarne il realismo. Ma a parte i doverosi tecnicismi, dal punto di vista della sceneggiatura, la sequenza della caverna di Gollum è di una perfezione disarmante.
Partendo dal presupposto che il romanzo de Lo Hobbit (datato 1937), è sostanzialmente un racconto per bambini, dallo stile narrativo impeccabile, ma pur sempre privo della profondità allegorica e mitologica del Silmarillion o de Il Signore degli anelli, il film conquista proprio per essere capace di non snaturarne la sua essenza drammaturgica. I cattivi sembrano un po’ meno cattivi della precedente trilogia, lasciando spazio ad un universo iconografico più favolistico che “reale”; gli eroi, anche quelli inconsapevoli, cozzano per corporatura con le immagini più classiche. Arricchito con parti mancanti nella pagina scritta, costruite attingendo da un corpus piuttosto ampio di appendici, tanto da portare Jackson alla decisione di dividerlo in tre parti (per l’ultima dobbiamo attendere sino al 2014), il film rimane solido e convincente sino alla fine, nonostante la prima mezz’ora un po’ soporifera (ma d’altronde lo è anche nel libro!).
In ultima analisi, quello che soggettivamente è visto come il tallone d’Achille del film, ovvero il tanto osannato formato dei 48 HFR 3D, che va a sostituire il “retrogrado” e convenzionale dei 24 fotogrammi per secondo. Pregio di una tecnologia che rende l’immagine nitida e ricca di dettagli, aspetto inusuale nel cinema tradizionale, è lo scopo, impensabile fino a pochi anni fa, di far avvertire l’immagine ad un livello di realismo molto vicino a quello percepito dall’occhio umano. Ma è qui che arriva la nota dolente. Questo formato toglie, senza riserve, quello che chiamiamo in maniera gergale, l’effetto cinema, stordendoci con immagini velocizzate e una messa a fuoco totale degli oggetti (fastidiosa, per quanto perfetta).
Rimane il fatto che Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato, ha in se la magia di un universo infinito e complicato, dove le tematiche umane sono tutte presenti ed evidenziate; un mondo il quale non vorremmo lasciare mai, per paura che la nostra vita, al risveglio, sia ancora troppo noiosa.
Serena Guidoni