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L’ultima ruota del carro – Recensione

Il film d’apertura dell’8° Festival del Film di Roma è quasi emblematico, L’ultima ruota del carro: la storia di un uomo vero, un uomo del popolo. Manifesto ideale per un Festival dedicato (di questi tempi sembra davvero un obbligo morale) alla gente comune come Ernesto, un uomo che ha difeso la propria dignità di persona onesta e lavoratrice, sempre e comunque.
Scegliendo di raccontare questa storia nel suo film, Giovanni Veronesi cambia rotta, diventando regista più ispirato e distinguendosi per una mano più abile e delicata che altrove.
Ernesto Fioretti (Elio Germano) è un autista di produzione (uno dei tanti lavori che ha fatto nella sua vita) che Veronesi conosce da anni, ma mai aveva sentito il racconto della sua vita. Fino a un giorno in cui, uscendo da un autogrill l’autista esclamò: “Abbiamo mangiato peggio di quando facevo il cuoco d’asilo!” . Da lì la curiosità del regista fu risvegliata da una storia che sembrava fatta per il cinema.
Dal 1967 ad oggi, il film segue la storia di Ernesto, da bambino a uomo sessantenne. Figlio di un tappezziere romano, tifoso romanista, bambino sui campi di calcio di periferia, poi ragazzo e uomo maturo, Ernesto tenta di seguire le proprie ambizioni ma lo fa quasi in punta di piedi, senza mai perdere di vista i veri valori della vita. Prima tappezziere al seguito del padre-padrone, poi cuoco d’asilo grazie a una raccomandazione, poi trasfocatore per scelta, autista e comparsa nel cinema.  Seguendo le vicende di Ernesto e del suo inseparabile amico Giacinto (Ricky Memphis), si rivivono alcuni fatti cruciali della storia degli ultimi 40 anni del nostro Paese.
La vita di Ernesto non è particolarmente eccezionale e questo ne fa una cosa, ci si perdoni il gioco di parole, “eccezionale” per il cinema. Raccontando la storia di questo uomo comune, il film ripercorre il nostro passato prossimo tra episodi drammatici (l’omicidio di Aldo Moro) e momenti di euforia generale (la vittoria ai Mondiali di calcio in Spagna nel 1982).
Su questo affresco italiano, che passa anche per l’ascesa del Partito Socialista negli anni ’80, Tangentopoli e la discesa nell’agone politico di Silvio Berlusconi, Veronesi dichiara il suo debito alla tradizione illustre della commedia all’italiana dei Risi, degli Scola, dei Monicelli. L’amore per l’uomo semplice e uno sguardo partecipe e affettuoso del regista che per una volta appare sincero, fanno di questo film un’opera che intrattiene facendo a tratti anche sorridere. Scegliendo di lasciare ai fatti di cronaca la funzione di cornice alla parabola umana del protagonista e costellando le vicende di Ernesto con riferimenti a fatti precisi della nostra storia recente, il film cerca di focalizzarsi sullo sguardo del protagonista verso ciò che lo circonda. E il punto di vista diviene quello dell’”ultima ruota del carro”, del semplice traslocatore che per anni ha scaricato mobili e opere d’arte (alle quali poi si appassionò). Un uomo che ha visto passare sotto i suoi occhi gli anni della corruzione, del malaffare, degli scandali, restando saldo nei suoi principi e fedele ai suoi ideali. Un uomo che ha visto tante ingiustizie politiche restando sempre povero ma onesto e tutto sommato felice dei suoi affetti familiari saldi. Accanto a lui, una serie di tipi umani davvero ben caratterizzati: l’amico Lucignolo tentatore verso un paese dei balocchi più sognato che reale (un Ricky Memphis perfetto nei panni del cafone pronto a saltare sul presunto carro vincente, bell’esempio di voltagabbana nostrano capace di passare dal Partito Socialista al berlusconismo), lo zio romanista fino al midollo e abilissimo nell’arte del trovare “spinte” e “spintarelle” (un bravo Maurizio Battista), lo squallido, vizioso e corrotto politicante socialista (un versatile Sergio Rubini), l’artista pop pazzoide e naif (un Alessandro Haber in stato di grazia). 
Al di là di un buon lavoro fatto dal regista con gli sceneggiatori Ugo Chiti e Filippo Bologna, il vero grande valore del film sta però quasi tutto nel suo interprete principale, un sempre più bravo Elio Germano, un attore di razza, capace di esprimere la cosa forse più difficile, l’umanità ingenua e per questo vincente (a dispetto di tutto) di un uomo perbene.
Merito della pellicola di Veronesi è stato quello di aver (ri)portato al centro della scena proprio lui, l’uomo comune che ancora crede ancora nel valore assoluto dell’onestà in tempi in cui, forse, è diventata una parola troppo fuori moda.

Elena Bartoni
 

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