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Manglehorn – Recensione

Dopo aver tentato di emulare, non riuscendoci completamente, Jeff Nichols con Joe, presentato qui a Venezia l’anno scorso, David Gordon Green torna poggiando il suo Manglehorn totalmente sulla bravura e il carisma di Al Pacino, che riesce a sostenere un film non semplice, che dividerà lo spettatore così come la critica.

Angelo Manglehorn (Al Pacino, appunto) è un fabbro che nasconde un passato oscuro da criminale. Un ex pregiudicato che 40 anni prima ha rinunciato all’amore della sua vita per un colpo; questa scelta continua a perseguitarlo. Passa così le giornate a tormentarsi, fino a quando non incontra una giovane donna che lo aiuta a superare il trauma.

Un mondo da ricostruire partendo dal fondo, un eroe moderno vicino agli archetipi epici, un eroe che vede gli inferi, supera gironi e prove per rivedere la luce. Questo è Angelo Manglehorn nella favola disincantata di David Gordon Green che, nonostante alcuni buoni spunti,  non riesce a convincere al 100%.

Eppure, di fondo, del bene c’è partendo dal simbolismo disseminato per la pellicola,  fino alla delicatezza con cui il regista decide di ritrarre l’ordinario, rischiando di cadere nella noia, attraverso un stream of consciusness che può finire per infastidire o innervosire.

Questo non toglie che Gordon Green conosce bene il protagonista della sua storia, comprende la confusione che lo attanaglia e non lo fa vivere e lo fa riflettere in una sceneggiatura che matura lentamente, forse troppo, e che si riesce a comprendere solamente a posteriori in un ultima commovente e riuscita sequenza.

Angelo ha bisogno di riappacificarsi con il mondo e per farlo, prima, deve riappacificarsi con le persone che lo abitano. Il gentil sesso in primis e il proprio figlio poi. Tutta la struttura narrativa è costruita come una grande calamita che fa di tutto per trascinare verso il basso il protagonista che lotta per rimanere a galla.

Il problema principale di Manglehorn, però, è che nella sua delicatezza si finisce per dimenticarsi del mordente, di quel elemento che faccia presa da subito nello spettatore che si trova bombardato da dissolvenze,  sovrapposizioni ecc…

È sempre rischioso concentrare una propria pellicola su qualcuno di ordinario, perché si finisce per scadere nel banale e nella noia e Gordon Green lo sa bene, tanto da inserire qui e là dei racconti di avventure incredibili vissute dal protagonista per donargli quel aura epica di cui si parlava prima.

Nonostante però Manglehorn lasci una certa emozione a livello del subconscio, il pacchetto completo non riesce a convincere pienamente, non riuscendo va trovare un’identità ben definita e una sceneggiatura che si incolli allo spettatore.

Sara Prian

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