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Manto Acuifero – Recensione

Diretto dal messicano Michael Rowe, rappresenta il secondo capitolo della “Trilogia della solitudine” iniziata con l’apprezzato e premiato Año bisiesto. L’esistenza quotidiana condotta da Caro, bimba di 8 anni, dopo il divorzio dei genitori. Vive insieme alla madre ed al patrigno ma non riesce ad adeguarsi alla nuova situazione, e trascorre gran parte del tempo giocando nell’enorme giardino che circonda la casa. Tra scoperte di vita e piccoli dispiaceri, scopre aspetti non gradevoli del genere umano. Tipica pellicola a basso costo di taglio sociologico ed intimista, in cui la cinepresa segue immobile i comportamenti dei personaggi e li analizza con la meticolosità di un entomologo. Proprio l’entomologia è, non a caso, il mestiere praticato dal padre della piccola protagonista, incarnata da un’interprete apprezzabile per veridicità e spontaneità. La regia ne sottolinea l’isolamento interiore, ma soprattutto la distanza che la separa da un mondo di adulti incapaci di comprenderne fino in fondo i sentimenti e i bisogni. Ampio è il ruolo giocato dalla natura e dagli insetti, posti al centro di numerosi dettagli ed elevati a simbolo di tale ideale distacco. Il finale, crudo e repentino, chiude quello che è in fondo un pacato eppure durissimo atto d’accusa verso una società moderna (latino-americana, nella fattispecie), sempre più carente di valori familiari ed indifferente verso l’infanzia. Si rivolge ad un pubblico paziente e partecipe, inevitabilmente ridotto.

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