Match Point – Recensione
E’ proprio nelle sue rare incursioni nel dramma che si palesa la vera indole di Woody Allen ovvero il suo pessimismo esistenziale nei confronti dell’umanità. Quella sfiducia nell’uomo come animale schiavo delle sue pulsioni più degradanti. Lo testimonia – tra gli altri – il suo primo film girato in Inghilterra (con troupe e cast inglesi) che può essere letto come un romanzo di formazione al negativo. Una scalata sociale che ha bisogno di un duplice omicidio per essere completata e affermata definitivamente, non prima di aver operato una difficile scelta tra avidità e lussuria.
Il protagonista è un giovane irlandese dagli occhi azzurri e dalle umili origini, Chris Wilton (l’attore/modello Jonathan Rhys-Meyers) che grazie alle sue qualità di tennista (ex-professionista ora istruttore in un esclusivo centro sportivo di Londra) conosce quello che diventerà il suo migliore amico Tom Hewett (Matthew Goode) e quella che diventerà sua moglie, l’innamorata Chloe (Emily Mortimer), entrambi futuri eredi di una ricca famiglia che lo prenderà ben presto sotto la sua ala protettiva (ad unirli la passione per l’arte e la cultura) e consentendogli così una rapida quanto fortunata ascesa sociale. Anche se non ne è perdutamente innamorato, Chris accetta di buon grado la compagnia di Chloe, carina, sensibile e intelligente, divenendo molto amato dai suoi parenti, primo fra tutti il pater familias interpretato da Brian Cox, che viene facilmente convinto dalla figlia a introdurre il nostro futuro “(anti)eroe” in una delle sue società come dirigente.
Fin qui tutto tranquillo se non fosse che l’incontro con la provocante bionda Nola Rice (la 21enne Scarlett Johansson, nuova musa del regista dopo Diane Keaton e Mia Farrow e unica interprete americana del film) risveglierà in lui una passione sessuale che rischierà di schiantare rovinosamente il suo percorso nell’alta borghesia. Nola, attrice insicura che non riesce a sfondare, labbra carnose, corpo sexy e sensuale timbro vocale, entra così pericolosamente nella vita di Chris, diventandone l’amante e creando un delicato intreccio amoroso, instabile quanto intrigante. Arriveranno ad essere due, quindi, le donne innamorate del protagonista, che si dividerà sempre più rischiosamente fra teatri e mostre in compagnia della sua nuova famiglia e il sesso consumato in clandestinità insieme a Nola che (anche a causa delle false promesse di Chris) diventerà sempre più pressante nelle sue minacce di riferire tutto alla moglie se non la lascerà il prima possibile. Ma Nola per quanto sia attraente è – proprio come Chris – tutt’altro che ricca e un divorzio porterebbe lui ad abbandonare tutti i suoi privilegi. Si richiedono “estremi rimedi” per mettere a tacere la sempre più instabile amante che, come se non bastasse, scopre di stare aspettando un bambino.
All’accurato ritratto dell’alta società londinese (che fa con un’ottima descrizione il comico e apprezzato autore newyorkese, all’epoca 70enne) corrisponde, come accennato, un’acuta riflessione sui rapporti di classe focalizzata attraverso la sconvolgente discesa negli inferi di un personaggio che – a dispetto delle apparenze – sorprende per l’efferatezza con cui rivela la sua vera natura, arrivando a sorpassare spietatamente ogni limite morale ed etico. Il tutto sorretto da una metafora fin troppo sottolineata tra lo sport del tennis e la vita, entrambi condizionati dalla fortuna (e non dal fato) più di quanto ognuno di noi vorrebbe ammettere. I “delitti senza castigo” raffigurati nel film sono intelligentemente accompagnati da arie e musiche d’Opera – che tornano spesso a sottolineare le azioni di Chris – la maggior parte delle quali prese in prestito da opere di Giuseppe Verdi e interpretate da Enrico Caruso (tra cui “La Traviata”, “Macbeth” e “Il Trovatore”), funzionali alle tinte fosche del thriller in cui versa il racconto nell’ultima parte. Fino al colpo di scena finale.
Se il percorso drammaturgico del protagonista è credibile (anche se estremo) e non cala mai di tono, né perde mai in fascino e morbosità, riuscendo a far rimanere sempre con il fiato sospeso grazie ad un’infallibile sceneggiatura, l’aspetto spesso patinato delle immagini e i continui e forzati riferimenti a Dostoevskij – uniti alla ripetitività nell’aver calcato un po’ troppo la mano con metafore varie – indeboliscono un po’ il valore intrinseco del film. Laddove infatti il discorso fosse stato un po’ più allusivo e meno esplicito sarebbe divenuto più interessante e meno “a tema” se così si può dire. Nonostante quindi l’opera – presentata fuori concorso al 58° Festival di Cannes – non riesca a raggiungere altissimi livelli stilistico-espressivi, rimane comunque un buon film, assolutamente da vedere anche (e soprattutto) perchè rappresenta una tappa fondamentale nel percorso artistico di un autore che sarebbe potuto rimanere sempre nell’ambito delle commedie dai grandi incassi, mentre invece (evitando di fossilizzarsi sul genere comico) ha coraggiosamente sentito il bisogno di rischiare, cambiando schema e affrontando temi importanti. Dimostrando quindi la versatilità tipica di ogni autore ambizioso che si rispetti che mette sempre e continuamente alla prova sè stesso.
Woody Allen rimarrà in Inghilterra per altri due film consecutivi a questo. “Scoop” (2006) commedia un po’ fiacca e prolissa in cui ritroverà la bionda sex-symbol di “Lost in Translation” e il noir “Sogni e Delitti” (2007) in cui – in linea con “Match Point” – tornerà al dramma più nero e al tema della colpa. Con l’infelice commedia dai molteplici intrecci amorosi “Vicky Cristina Barcelona” del 2008 – che ha più punti in comune con una telenovela che con un’opera cinematografica – sbarcherà in Spagna e ritroverà per la terza e ultima volta Scarlett Johannson, toccando uno dei punti più bassi della sua carriera di regista/sceneggiatore.
Matteo Carletti