Mi chiamo Maya – Recensione
Una lunga passeggiata fianco a fianco delle protagoniste, in un mondo come quello adolescenziale allo sbando, privo di contenuti e con numerosi incontri occasionali poco importanti, questo è Mi chiamo Maya, il primo lungometraggio di finzione di Tommaso Agnese.
Niki, sedici anni (Matilda Lutz) e la sorellina Alice (Melissa Monti) di nove anni si ritrovano improvvisamente orfane di madre. Hanno padri diversi e solamente quello di Alice è pronto a prendersi cura di lei portandola con sé negli Stati Uniti. Le sorelle allora, pur di rimanere insieme cercano di stare lontane dagli operatori dei servizi sociali ed iniziano così un breve viaggio attraverso una Roma popolata solo da adolescenti, dove gli adulti risultano assenti.
Gli adulti, troppo impegnati fra festini altoborghesi, serate in discoteca e video chat erotiche al riparo da sguardi indiscreti e tutti all’interno di locali e palazzi, sono una fetta della società, estranea a quella degli adolescenti, che invece trascorrono il loro tempo ad attraversare Roma in un lungo e in largo.
Questa è un po’ la metafora del rapporto genitori-figli nel mondo attuale. Maleducazione, bullismo, violenze, gli adolescenti di oggi vengono dipinti così, ma dietro probabilmente ciò che manca è proprio la figura di qualcuno di adulto, a volte non presente per necessità o egoismo.
Agnese, già documentarista sensibile ai problemi legati ai giovani, ha deciso di portare in scena uno dei periodi più importanti e difficili dei ragazzi. L’adolescenza, con la sua altalena di sentimenti e comportamenti contrastanti, è qui rappresentata proprio dalle protagoniste (sebbene Alice sia più piccola), che nel loro viaggio itinerante vengono in contatto con diverse ragazze, sebbene scapestrate, che le aiutano a modo loro.
Matilda Lutz e Melissa Monti, riescono appieno ad incarnare i loro ruoli, commuovendo ed emozionando, così come il resto del cast, ma nonostante le buone performance ed una regia ben dettagliata, che non lascia nulla al caso, sarebbe forse stato il caso di “sporcare” un po’ di più la pellicola.
La sceneggiatura scritta a quattro mani da Agnese insieme a Massimo Bavastro, nonostante la buona costruzione dei diversi personaggi, è probabilmente troppo massiccia: troppi eventi in un arco di novanta minuti. E se la Roma vuota che si voleva rappresentare fosse stata più periferica e meno patinata, il tutto sarebbe stato più credibile, ciò però non toglie che Mi chiamo Maya, sia un buon film, che riflette con coraggio sul disagio giovanile, entrando poco in profondità, ma emozionando ugualmente.
Alice Bianco