Miele – Recensione
Valeria Golino esordisce alla regia con Miele, film drammatico (tratto dal romanzo A nome tuo di Mauro Covacich), in uscita il 1 maggio, che sarà presente al prossimo Festival del cinema di Cannes. Esordio interessante quello della neoregista (in questo caso anche sceneggiatrice), aiutata dal suo compagno/collega Riccardo Scamarcio, per la prima volta produttore. Bisogna dare subito merito alla Golino per la scelta di non essersi messa pretenziosamente davanti alla macchina da presa e di aver lasciato fuori dallo schermo anche il bel volto di Scamarcio.
Il film è la storia di Irene (Jasmine Trinca), una giovane ragazza che aiuta le persone gravemente malate a morire, assistendole durante il suicidio. Il suo nome di servizio è Miele, un apparente palliativo che contrasta con la sua cruda professione. Su indicazione di un ex amante medico (Libero De Rienzo) la protagonista incontra i malati consenzienti che vogliono porre fine alla loro esistenza, si reca periodicamente in Messico per procurarsi un forte veleno per cani e assiste i pazienti verso l’ora fatale, assecondando ogni loro richiesta. Miele si mantiene in equilibrio tra la morte (il suo lavoro) e la vita fino a quando incontra l’ingegnere Grimaldi (Carlo Cecchi), un uomo attempato, affatto malato, che vuole morire semplicemente perché depresso e annoiato. Grimaldi mette in discussione le convinzioni di Miele che non uccide depressi, ma solo malati che soffrono. La protagonista inizia così un rapporto problematico, di incontro/scontro, con l’ingegnere che porterà al nascere di un dialogo di confidenze, intimità, discussioni e amicizia.
Irene svolge la sua professione con una lucidità e una fermezza, che poi perde; è una ragazza timida e solitaria che, per il suo lavoro indicibile e inconfessabile, non riesce ad istaurare veri e sinceri rapporti con le persone più care: il padre (vedovo) e l’amante (Vinicio Marchioni), un uomo sposato. Al suo ruolo di angelo della morte cerca di reagire recuperando l’energia vitale nel nuotare, nell’andare in bicicletta, nel fare l’amore e nell’ascoltare musica.
Una particolarità del film (non necessariamente negativa) è che lo spettatore segue l’evoluzione emozionale della protagonista con la difficoltà di immedesimarsi in lei, dato il crudo e duro lavoro che svolge, e la domanda che si pone spontaneamente è: “Perché lo fa?”. Si suppone che da piccola Irene abbia perso la madre per una lunga malattia, aspetto non approfondito che quindi lascia la domanda in parte aperta. Anche le motivazioni della ragazza sono solo accennate: “Io credo in quello che faccio” ma niente di più. Se questi elementi fossero stati approfonditi (senza cadere nel banale), probabilmente il pubblico sarebbe stato più in grado di avvicinarsi a livello emotivo allo stato d’animo della protagonista.
Nel cast, il grande attore teatrale Carlo Cecchi costituisce un valore aggiunto alla pellicola con il quale la giovane attrice Jasmine Trinca è stimolata a confrontarsi in una performance ben eseguita. Vinicio Marchioni a sua volta, nei panni di amante di Irene, è sempre incisivo anche in piccole parti per il suo fascino e carisma. Un grande ruolo gioca anche la musica, quasi sempre presente nel film, con l’assaggio di diversi brani (dei Talking Heads, di Thom Yorke, di Christian Rainer e tanti altri) e con una duplice funzione: l’ accompagnamento dei pazienti verso la morte e l’ isolamento della protagonista dal mondo che la circonda.
Bisogna riconoscere a Valeria Golino grande coraggio per aver deciso di esordire alla regia con un argomento illegale, difficile da affrontare e duro da digerire soprattutto se portato davanti agli occhi. La regista ce lo propone su grande schermo magistralmente con una coerenza visiva fatta di rimandi e simboli, studiati primi piani, ricercati contrasti luce-ombra e una sobrietà lontana da ogni abuso di estetismo. La Golino non prende posizione riguardo l’argomento ma ciò non le impedisce di impostare uno stile proprio, adeguato e curato, e di dare inizio ad una carriera registica promettente.
Pur non approfondendo nulla in modo netto e decisivo, il film ha il potenziale di toccare diversi argomenti (l’eutanasia e il suicidio assistito, il rapporto padre-figlia, la perdita di una persona cara, la vita, la morte, l’amore) e di fornire spunti di riflessione che scuotono l’animo e la mente. Per questi motivi non ci sorprende che partecipi a Cannes una pellicola che, seppur non leggera, merita di essere vista e di avere il giusto risalto.
Elisa Cuozzo