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Moebius – Recensione

Spiazzante, grottesco, divertente, crudo e crudele, “Moebius”, nuova pellicola del regista coreano Kim Ki-duk, Leone d’Oro a Venezia della scorsa edizione con “Pieta”, è connotata da tutta questa serie di aggettivi, che la rendono un film facile da imprimere e sedimentare nella mente dello spettatore, lasciandolo letteralmente a bocca aperta, con scene di violenza, abusi e relazioni di amore e odio, eticamente scandalosi.
 
I tre protagonisti del film sono una famiglia composta da padre, madre e figlio. La moglie e il figlio scoprono che l’uomo ha una relazione extraconiugale, la donna è infuriata e il figlio invece è eccitato dalla situazione. Vedendo ciò, la madre viene spinta dalla foga di evirare entrambi, riuscendoci solamente con il figlio. Il padre, sentendosi colpevole, decide di subire un intervento per castrarsi, nel frattempo il figlio si innamora della sua ex amante.

Kim Ki-duk aveva stupito l’anno scorso con una storia dai contorni pseudo famigliari violenti, ritorna quest’anno Fuori Concorso, ma non smette di far parlare di sé. La violenza muta di questo tipico, ma anormale nucleo famigliare, è la molla che scatena tutta una serie di relazioni complicate ed inverosimili, puntando tutto sulla crudeltà e crudezza psicologica, a tratti grottesca, che riesce nella confusione emozionale, a far sorridere lo spettatore.

Piacere e sofferenza, intensa come dolore fisico, visivo e sentimentale sono espressi senza nessuna parola se non gemiti e grida, tutto il film è costruito proprio in equilibrio fra questi due opposti, che i protagonisti rincorrono ed assaporano per circa 90 minuti.

La “petite morte”, l’orgasmo, è la rappresentazione massima di questo confine fra godimento e dolore e padre e figlio lo sperimentano a loro spese; evirati, riescono a provare piacere solamente sfregandosi la pelle con un sasso, raggiunto l’amplesso però, è il dolore a prenderne il posto, così come accade con il coltello che l’ex amante del padre infligge nella spalla del giovane: i movimenti con la mano che fa la donna, facendo finta di masturbare il giovane permettono ad entrambi di raggiungere l’apice del piacere.

Con la sua poetica degli ossimori e scatenando un caos delle relazioni, punendo e autopunendosi, i protagonisti della pellicola si contraddistinguono per la loro abilità nello scambiarsi i ruoli: il figlio evirato si innamora dell’ex del padre e si sostituisce a lui, l’uomo si fa castrare riuscendo ad impiantare il suo pene nel corpo del figlio e quest’ultimo, a causa del complesso di Edipo, si sente solamente attratto dalla madre, che a sua volta lo vede come se fosse il suo ex marito e se ne approfitta di lui.

In mezzo a questa confusione sono due i momenti di preghiera che fanno tirare un sospiro di sollievo, e, come detto dallo stesso regista “sono liberazione totale dai pensieri e dalle ansie contingenti”. Adrenalina, efferatezza e disturbo psicologico, questo si insinua nello spettatore, divertendolo e allo stesso tempo facendolo soffrire, seguendo così la scia del confine tracciato dal film: piacere e dolore.

Alice Bianco

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