Mud – Recensione
Tenendo fede agli elementi che hanno caratterizzato i suoi due film precedenti, Jeff Nichols con il suo nuovo lavoro “Mud” fa un passo avanti, facendo crescere il climax d’emozione a pari passo con la maturazione del giovane protagonista.
Ellis (Tye Sheridan) e Neck (Jacob Lofland) sono due ragazzi della provincia dell’Arkansas che un giorno trovano, su un’isola nelle vicinanze, una barca abbandonata su un albero. Convinti di poterla fare propria, scoprono ben presto che è abitata da Mud (Matthew McConaughey), un personaggio particolare che chiederà loro di aiutarlo nella fuga da quel luogo per raggiungere la fidanzata Juniper (Reese Whiterspoon), nascondendo però loro un importante segreto.
L’America di provincia, quella fatta di luci soffuse e molto contatto con la natura, si ritaglia qui, come nei due film precedenti, un ruolo da co protagonista. E così come è stato per “Shotgun Stories” e “Take Shelter”, la famiglia diventa il fulcro dell’intero sistema narrativo, compiendo in “Mud” un passo in avanti in una costruzione più complessa del concetto di nucleo famigliare.
In quest’ultimo e maturo lavoro, infatti, la famiglia si costruisce su più livelli che, a tratti, provano ad incastrarsi tra di loro: c’è il “bromance” tra Ellis e Neck a cui poi si aggiunge anche Mud che si pone in una via di mezzo tra fratello maggiore e padre, c’è la famiglia in disfacimento di Ellis, c’è quella che tenta di nascere tra Mud e Juniper e, infine, c’è il nucleo più atipico, ma più funzionale, con lo zio (un sempre presente Michael Shannon) che cresce, in assenza dei genitori, Neck.
Ma è l’amore quello che, in maniera estremamente ancorata alla realtà di tutti i giorni, vuole raccontare Nichols e lo fa attraverso gli occhi prima innocenti e poi disillusi di Ellis.
Con il suo percorso formativo del cuore e dei sentimenti, veniamo a contatto, in poco più di 2 ore, con tutti i tipi d’amore. Tye Sheridan riesce in maniera quasi impeccabile a trasmettere allo spettatore la sua crescita e la disillusione che, forse, non basta solamente amarsi per vivere felici e contenti.
Se c’è qualcosa da imputare a Nichols è però l’eccesso di cinismo nei confronti dei sentimenti, soprattutto nei rapporti uomo-donna, dando maggior possibilità di lieto fine all’amicizia. Grazie ad essa, infatti, Mud si riscatta uscendo dal quell’alone di egoismo di tornaconto personale che si costruisce fin dall’inizio.
Nelle situazioni dolorose o felici, il regista fa immergere completamente i protagonisti e proprio come se fosse fango, mud appunto, si ritrovano impigliati, incrostati da tutte queste illusioni e disillusioni, facendo difficoltà ad uscirne, a “ripulirsi” completamente dai segni che il “fango” ha lasciato sui loro corpi. Nessuno, difatti, sarà più lo stesso dopo essere entrato in contatto con Mud e con il “mud” a causa del turbinio di sensazioni ed emozioni che lo circonda.
La sceneggiatura scorre senza intoppi, anche se forse la durata del film un po’ si fa sentire, il cast è perfetto e risaltano in particolar modo i duetti tra Sheridan e McConaughey. Il finale, che ricorda quello di “Killer Joe” con lo stesso McConaghey anche se prende una strada diversa rispetto a quella del film di Friedkin, porta all’apice della tensione una pellicola giocata interamente sul filo del rasoio delle emozioni.
Sara Prian