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Muffa – Recensione

Presentato al 69° Festival di Venezia e vincitore per la miglior opera prima, Muffa è un film che racconta la storia di Basri (Ercan Kesal) 55enne che lavora come guardiano delle ferrovie e che, ogni giorno, controlla i binari compiendo chilometri su chilometri a piedi. Nella sua testa, però, c’è un unico pensiero: quello di Seyfi, figlio scomparso da 18 anni dopo essere stato fermato ad Istanbul per le sue ideologie politiche.

Ali Aydin crea un film di una fortissima potenza visiva, dove il dramma/thriller è costruito secondo geometrie di sguardi, di silenzi, di dialoghi inespressi ma sottointesi da gesti e posture.

La pellicola si è ispirata alle figure delle cosiddette “madri del sabato” quel gruppo di donne che si riunivano in piazza con le foto dei figli scomparsi. Qui abbiamo un “padre di tutti i giorni” e un racconto dalla parte di coloro i quali attendono, invano, il ritorno di figli, amici, parenti. L’attesa è straziante ed è composta da attimi, da tic, da nervosismi, da mille pensieri che si affollano nella nostra testa, cuore e stomaco; ed è questo che Aydin ci mostra con delicatezza, ma allo stesso tempo forza.

Basri ha, infatti, una forza interiore invidiabile, anche dopo 18 anni continua la sua instancabile ricerca del figlio, nemmeno l’essere incarcerato per la troppo insistente verso il Ministero degli Interni e la Questura possono fermare la sua ostinazione, perché esiste quell’idea del figlio, quella speranza che ancora brilla.

Ed ecco che il regista crea il momento di triste epifania: il confronto tra il padre e la dura realtà dei fatti, la certezza che il suo amato Seyfi non tornerà più. C’è sollievo per aver davanti la verità dopo anni di ricerca oppure sarà la solitudine a prendere il sopravvento ora che nemmeno la speranza resta a fargli compagnia?

Quello che fa Aydin è raccontare l’assenza, il vuoto di cui il mezzo cinematografico si fa portavoce attraverso la tecnica dei lunghissimi e silenziosi piani sequenza, in un’atmosfera sospesa, lontana dalla realtà esattamente come si sente chi è solo, chi ha perso qualcosa o qualcuno, rimane solo un piccolo mondo, il proprio e non c’è interesse per il caos esterno della città.

Non c’è colonna sonora, solo il rumore leggero di una vecchia radio e il film penetra nello spettatore ed espande la proprio sensazione del vitreo, come fa la muffa che da piccola, in poco tempo si fa grande, nascondendo il muro, nascondendo quello che c’era sotto lasciando questo velo sporco e grigio, difficile da grattare via, perché è l’umidità delle lacrime a nutrirla ad inaridire il corpo.

Muffa è un film difficile, ma di forte impatto emotivo che racconta una realtà dolorosa che dilania dentro, ma lo fa senza urlare, in silenzio, lasciando che le immagini parlino, lasciando che la forza del cinema urli per lui.

Sara Prian

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