Noah – Recensione
Un film epico, monumentale, grandioso, il più ambizioso nella carriera del regista Darren Aronofsky. Portare sul grande schermo per la prima volta nella sua interezza la storia di Noè, approfondendone il lato umano e ponendolo al centro di un film altamente spettacolare, era impresa tutt’altro che facile.
L’intera storia di Noè occupa infatti poche pagine del Libro della Genesi (i capitoli dal 6 al 9), descrizioni piuttosto sintetiche e accenni che restano di difficile comprensione. Ma questi pochi passaggi hanno avuto un impatto profondo su miliardi di persone affascinate da temi come la forza della fede, la natura profonda del male, la speranza di una redenzione dopo una catastrofe. La cosa che ha intrigato ancora di più Aronofsky è che tutte le riduzioni della storia di Noè si sono limitate a parodie, commedie o film d’animazione: versioni comiche, animate e perfino un musical per Broadway. Allontanarsi dal lato folkoristico-umoristico e dal tono delle storie per bambini per costruire qualcosa di profondamente diverso: questo è stato l’impulso che ha mosso Aronofsky che, in collaborazione con lo sceneggiatore Ari Handel, ha creato un’opera complessa e fortemente simbolica della durata di 138 minuti.
Senza tradire il testo, il regista ha aggiunto molto in materia di componente visiva.
Noè, ultimo discendente della stirpe di Set, assiste alla morte di suo padre ad opera dei discendenti di Caino. Divenuto adulto, ha un sogno in cui il Creatore gli annuncia l’imminente fine dell’umanità con un diluvio, stimolandolo a costruire un’arca in cui riparare tutti gli animali insieme alla sua famiglia, la moglie, i tre figli e la giovane adottata Ila. Noè, aiutato dalla stirpe dei giganti, costruisce l’arca difendendosi dagli attacchi degli uomini quando è chiaro che la fine è imminente. Durante il diluvio che porta devastazione sulla terra, Noè è tentato da un eccesso di religiosità e rischia di uccidere le figlie femmine (quindi capaci di procreare) del suo figlio maggiore Sem e di Ila. Ma si frena lasciando vivere e sconfiggendo la sua nemesi Tubal-Cain infiltratasi nell’arca. Sopravvissuto con la sua famiglia, ritorna sulla terra per iniziare una nuova storia dell’umanità.
No, non siamo certo dalle parti del cinema biblico di matrice tradizionale ma di fronte a qualcosa di completamente nuovo. Sulle prime si potrà restare perplessi di fronte a tanta contaminazione di storia classica e spettacolo magniloquente, ma quello che convince di più è l’interesse del regista per ciò che sta alla base, per il rapporto tra umano e divino (o assoluto che dir si voglia).
Le invenzioni visive rappresentano il piatto forte e ne fanno un prodotto per certi versi vicino a tanti fantasy di grandi incassi del cinema contemporaneo. Gli eccessi non mancano e si materializzano soprattutto nella figura di un Noè a tratti preso da lampi di follia e delirio.
Ma è anche indubbio che il film rimanda agli occhi di chi guarda un insieme di suggestioni che non lasciano indifferenti: quei Guardiani (ovvero gli Angeli Caduti) rappresentati come mostri giganteschi di pietre e fango (l’invenzione più ardita e lontana dalla fonte biblica, più vicina semmai al mondo di Tolkien), visione creativa di Aronofsky dei giganti Nefilim menzionati nella Genesi, la rievocazione della creazione con scelte di montaggio rapidissime arricchite da immagini generate al computer, l’immane diluvio girato con un sistema di tubi riforniti di acqua da giganteschi serbatoi e gru, tali da far scendere 19.000 litri d’acqua al minuto (il triplo di una normale scena di pioggia).
Felice la scelta degli attori, a partire dal protagonista Russell Crowe (incentivato ad accettare il ruolo, come ha raccontato il regista, con la promessa che non sarebbe mai stato ripreso con una coppia di giraffe dietro la testa), fino a un’intensa Jennifer Connelly nei panni della moglie Naameh (non citata nella Bibbia ma descritta nei Proverbi), all’attore inglese Ray Winstone nel ruolo del malvagio Tubal-Cain discendente di Caino, e ai giovani Douglas Booth (che vedremo protagonista del Romeo and Juliet di Carlo Carlei) che interpreta Sem, Logan Lerman (noto per Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo) che è Cam, e Leo Carroll che è Jafet. Ad arricchire il cast, la presenza di Anthony Hopkins nei panni di un Matusalemme che restituisce la fecondità al ventre di Ila (interpretata da Emma Watson) un’orfana adottata da Noé dopo essere stata abbandonata tramortita, un personaggio d’invenzione (assente nella Genesi) che diviene catalizzatore della storia.
Lasciando da parte la religione (non a caso non si nomina mai “Dio” ma ci si riferisce a un “Creatore” mai raffigurato ma solo evocato riferendosi alla punizione per la razza umana rea di troppi peccati), Aronofsky evita di toccare la sacralità del testo di partenza e opta per un approccio artistico e personale, accendendo i suoi riflettori su un uomo che deve assolvere a un duro compito facendosi interprete di una volontà superiore, i suoi dubbi, il suo coraggio, le sue paure, la sua perseveranza, modellandolo su lacerazioni interiori molto contemporanee. E questo sguardo personale, che fa intravedere l’autore e il suo pensiero dietro ai prodigi della tecnica, rende il film molto più interessante dei tanti kolossal costosissimi che invadono le sale. Mortalità, amore, senso del sacro e poi il dramma familiare vissuto da Noè in un periodo tumultuoso, alimentato dal peccato, a metà tra la Caduta dell’Uomo e l’avvento del diluvio.
Un fantasy a sfondo biblico, girato con grande spiegamento di mezzi (è costato 130 milioni di dollari compreso il corredo in 3D fatto in post-produzione) da considerare “il meno biblico dei film biblici”. Accomodatevi quindi e gustatevi la grandeur del mondo antidiluviano (ricostruito in terra d’Islanda) di un visionario e allegorico kolossal d’autore come non si era mai visto prima.
Elena Bartoni