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Non aprite quella porta 3D – Recensione

La leggendaria saga horror, avviata da Tobe Hooper nel 1974, contava già diversi capitoli tra sequel, prequel e remake. In questo seguito si parte da dove terminava il numero 1. I Sawer, l’agghiacciante famiglia di macellai assassini, vengono denunciati dall’unica sopravvissuta alla loro furia omicida. Gli abitanti della zona li sterminano, ma una bambina rimane in vita ed è adottata da uno dei giustizieri/carnefici. Una volta cresciuta la ragazza scopre la verità e viene a sapere di aver ereditato dalla nonna un grande casa, dove si recherà insieme ai suoi amici. Qualcuno li attende nell’ombra. La scelta di riallacciarsi al prototipo del 1974, a partire dalla riproposizione delle sue più note sequenze durante i titoli di testa, può essere da un lato interpretata come un incondizionato atto d’amore mentre dall’altro causa un impari confronto con l’originale. Chi sperasse di ritrovare i punti di forza che consegnarono il classico di Hooper alla storia del genere, dalla fotografia grezza e suggestiva fino alla capacità di trasmettere angoscia e terrore senza mostrare il sangue, si metta l’anima in pace. Il regista John Luessenhop va per la sua strada e si perde in una grossolana palude di squartamenti e chiasso, allineandosi ai tanti splatter di bassa lega che ogni anno vengono destinati al solo mercato dei dvd. Nella sua fretta di shockare a tutti i costi il pubblico adolescenziale, indugia fin troppo morbosamente sui dettagli raccapriccianti, e non si impegna granchè quando si tratta di costruire la tensione che precede il crimine. Ciò lo porta a non sfruttare a dovere le poche buone idee offerte dalla sceneggiatura, incluso uno spunto iniziale oggettivamente non da buttar via. Il livello non viene risollevato da dialoghi scontati e talvolta ai limiti del trash (vedi già all’inizio la discussione tra la protagonista e il padre adottivo), né dagli sprazzi di comicità involontaria. Se gli interpreti dei cattivi “storici” risultano piuttosto scialbi e inadeguati (Gunnar Hansen e John Dugan, memorabili negli anni ’70, non lasciano il segno in questo cameo/flashback), rimane per fortuna intatto il delirante fascino emanato dal personaggio di Leatherface. Il feroce gigante dalla maschera in pelle umana imperversa più che mai con la sua sega elettrica e diviene una sorta di coprotagonista, in grado di tenere la scena come ai vecchi tempi. Da segnalare inoltre la discreta qualità del 3D, sebbene la fuoriuscita di lame ed interiora dallo schermo si faccia presto ripetitiva. Lo spettatore fanatico di horror violento e al tempo stesso digiuno dei film precedenti (esiste?) può accettarlo come semplice passatempo, il cui unico pregio indiscutibile sta nel non essere mai davvero noioso.

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