Notti magiche – Recensione
La tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma chiude con Paolo Virzì e il suo Notti magiche, presentato come Evento Speciale nell’ultima giornata della kermesse.
Sullo sfondo delle ‘notti magiche’ dei Mondali di calcio svoltisi in Italia nel 1990, la morte improvvisa di un noto produttore cinematografico sembra il pretesto per una trama noir ma in realtà il film è una sorta di romanzo di formazione di tre ragazzi aspiranti sceneggiatori che sognano di lavorare nel mondo del cinema.
Il regista livornese sceglie di ambientare la sua storia nell’estate del 1990, una stagione che gli è rimasta dentro e che tornava spesso nei vividi ricordi degli inizi della sua carriera. L’input a scrivere questa storia (messa su carta dal regista insieme a Francesca Archibugi e Francesco Piccolo) è emerso definitivamente dopo la cerimonia commemorativa per la scomparsa di Ettore Scola. E così è nata l’idea di scrivere una sceneggiatura che mettesse in pratica quello che è stato l’insegnamento dei grandi padri del cinema italiano, ossia sfotterli e prenderli in giro. Come ha sottolineato il regista, in questo film “tutto è vero e nello stesso tempo inventato”. La Roma che si vede nel film è la capitale da lui stesso conosciuta e amata quando vi si trasferì dalla Toscana.
La notte del ritrovamento del cadavere del produttore Leandro Saponaro in un’automobile caduta nel Tevere, un Comandante dei carabinieri chiama a testimoniare tre giovani aspiranti sceneggiatori che sono i principali sospettati del decesso. In tasca al produttore è infatti stata rinvenuta una Polaroid che lo ritraeva a cena con la sua fidanzata (una ragazza Coccodè) e i tre ragazzi. Proprio da questo interrogatorio prende le mosse il resoconto dell’arrivo a Roma e del contatto con gli ambienti che gravitano intorno al mondo del cinema dei tre giovani. Tutti e tre sono in gara per il Premio Solinas, riconoscimento riservato ai più promettenti sceneggiatori.
I tre giovani sono molto diversi per carattere, indole, provenienza: Antonio è un messinese colto e ampolloso ma ingenuo che si lascia ammaliare fino a corrompersi, Luciano orfano di padre proviene da una famiglia del ceto operario di Piombino, è ‘famelico e sfacciato’, Eugenia, romana di famiglia borghese, figlia di un influente politico, problematica e incline all’ansia e alla depressione è colei che ospita gli altri due nel suo attico in centro.
I tre sono catapultati nel cuore di quel mondo del cinema del 1990, un anno in cui, a detta di Virzì, siamo ancora in pieno ancién regime. Sullo sfondo della vicenda raccontata nel film si vede infatti tutto il potere di quegli anni. Il mondo del cinema dell’epoca poi è ricostruito con una galleria di ritratti sui generis, una sorta di “affresco brulicante, buffo, anche spaventoso”.
Alcune personalità sono evocate con i loro veri nomi sullo sfondo (si veda Fellini e l’omaggio alla scena finale de La voce della luna), altri sono stati ribattezzati con nomi di fantasia e messi in primo piano: c’è un produttore (un ottimo Giancarlo Giannini) che ha raccolto grandi successi ma ora in declino e con i beni pignorati (come non vederci un richiamo alle vicende di Cecchi Gori?), lo sceneggiatore Fulvio Zappellini (un perfetto Roberto Herlitzka) che richiama il maestro della sceneggiatura Furio Scarpelli (c’è anche il suo “laboratorio di scrittura” affollato di ragazzi alla macchina da scrivere), il regista impegnato e militante Fosco che non lavora da anni (un ritrovato Andrea Roncato). E poi c’è il ‘Potere’ di quegli anni (Craxi davanti all’hotel Raphael, De Michelis in discoteca).
Anche in questo caso (come in alcune riuscite commedie amare della sua filmografia), Virzì porta in scena grandi conflitti. Quello tra vecchi e giovani, perché in quegli anni l’Italia era in mano a un establishment culturale e politico di vecchia generazione, praticamente inespugnabile, e quello tra maschi e femmine, come ha ancora osservato il regista livornese, il modo del cinema di quegli anni era ancora molto maschile, l’Italia era un Paese maschilista, tutta una generazione di autori era composta da maschi e le poche femmine che c’erano si mascolinizzavano per stare al passo.
E tra ristoranti fumosi e affollati dove si discute e litiga tra sceneggiatori, registi e produttori, studi privati, residenze d’epoca e pompose ville di produttori che hanno fatto i soldi con i film ‘pecorecci’ e con i poliziotteschi, il film si smarrisce un po’.
Omaggiando il cinema di ieri e ponendosi tanti quesiti su quello di oggi e sul suo destino, Virzì si perde nel magma del materiale che deve maneggiare. Dalla vicenda principale si snodano sottotrame e tanti, troppi, personaggi di contorno, che rendono la narrazione strabordante. E il gioco meta-cinematografico si appesantisce via via, accumulando situazioni, mescolando toni e registri. Notti magiche resta percio’ un film sospeso, pieno di autobiografismo, a metà strada tra l’omaggio e l’invettiva verso quello stesso mondo che accolse il regista ai suoi inizi e che ormai è definitivamente tramontato.
In definitiva questa ‘Grande bellezza’ del cinema italiano vista dagli occhi del regista livornese lascia un po’ perplessi. Nello sguardo che Virzì getta su quella Roma di ieri (in cui giunse nel 1985 come studente del Centro Sperimentale) definita “caotica, sporca e corrotta, ma che metteva allegria” (per lui meravigliosa) mentre quella di oggi è sostanzialmente “abbandonata”, c’è molto affetto ma anche molto disincanto.
Lo stesso senso di amarezza e disillusione nascosta sotto la patina di un sogno, quello del cinema di tre giovani che vissero un’estate indimenticabile in cui le loro strade incrociarono quelle di alcune personalità di un mondo che per sua stessa natura, altro non è che la più grande fabbrica di sogni.
Elena Bartoni