Nymphomaniac – Volume 1 – Recensione
Il sesso e la filosofia, il sesso e la matematica, il sesso e la musica, il sesso e religione, il sesso e la pesca perfino. Ecco Lars von Trier e il suo ultimo monumentale e, neanche a dirlo, discusso lavoro.
Preceduto da un grande tam tam pubblicitario sul suo reale o presunto scandalo, Nymphomaniac è un lungo racconto all’indietro nel tempo, un vero e proprio diario di una ninfomane.
In Italia per ora arriva nelle sale cinematografiche la versione tagliata nelle scene più esplicite e autorizzata dallo stesso regista, per un totale di quattro ore divise un due volumi (la versione integrale dura invece cinque ore e mezza e si è vista per ora solo al Festival di Berlino).
Il primo capitolo ha un incipit quasi teatrale, degno del suo autore. Schermo nero, rumore di pioggia, lo scorcio di un paesino: una donna ferita è stesa in un vicolo, ha il volto tumefatto. Un anziano uomo, Seligman (Stellan Skarsgård) la soccorre e la porta a casa dove cura le sue ferite e le chiede di raccontargli la sua storia. La donna, il cui nome è Joe (Charlotte Gainsbourg), narra la sua vita divisa in capitoli.
“Sono un essere umano cattivo e sarà un racconto lungo” preannuncia la protagonista, cui offre il volto da adulta l’attrice Charlotte Gainsbourg, ormai musa del regista danese e presenza fissa anche negli altri due precedenti film che compongono questa “Trilogia della Depressione”, Antichrist e Melancholia. Ma in questo primo capitolo l’attrice francese si vede solo ferma nel letto che racconta la sua storia, mentre a prestare il volto e il corpo esile alle performance sessuali della ninfomane da giovane è l’attrice inglese Stacy Martin.
Il racconto, crudo ed esplicito, prende le mosse da quando la protagonista scopre il suo organo sessuale ancora bambina. Dai giochi segreti sul pavimento pieno d’acqua della stanza da bagno ad appena cinque anni, alla perdita della verginità fortemente voluta e cercata con un giovane di cui amava le mani (e la moto), alle sfide con l’amica del cuore a chi possedeva più uomini nella toilette di un treno, fino a un club di ragazze il cui motto è “Mea vulva” in guerra contro l’amore. Ma non è tutto. Nei cinque capitoli di questo Nymphomaniac – Volume I si parla di amore, seppur in una forma filtrata dagli occhi di una ninfomane (nel capitolo secondo, Jerôme) e di morte (nel quarto e meno riuscito di tutti, Delirio, in cui muore il padre della protagonista). Il capitolo terzo, La Signora H, vale da solo per il grande monologo di una ritrovata e matura Uma Thurman.
In tutto questo primo film le metafore culturali che il personaggio di Seligman, l’uditore della storia, applica razionalmente alle performance sessuali della protagonista, offrono diversi spunti di riflessione. Anche se la sequenza delle prime penetrazioni della protagonista quindicenne (tre davanti e cinque dietro) con i numeri scritti in sovrimpressione a tutto schermo e paragonata da Seligman alla sequenza numerica di Fibonacci (matematico pisano del XII secolo) può provocare qualche manifestazione di involontaria ilarità. Ma non ci si ferma qui, la distinzione tra sesso gioioso e sesso masochistico fa riferimento alla differenza tra Chiesa d’Oriente e alla più punitiva Chiesa d’Occidente e il sesso giovanile dell’eroina viene paragonato dall’intellettuale Seligman alla pesca con la mosca. Infine (almeno per questa prima parte) la performance sessuale “a tre voci”cui si sottopone la ragazza con tre amanti diversi, viene accostata alla polifonia di Bach.
Il film può piacere, ma a tratti anche irritare o provocare qualche risata, può disturbare o lasciare dubbiosi ma una cosa è certa, non lascia affatto indifferenti, come tutte le opere del regista danese.
E’ ovvio che non è possibile dare un giudizio completo per un’opera a metà (e per di più in versione tagliata) di cui è assolutamente necessario vedere la seconda parte (in uscita in Italia il prossimo 24 aprile). Di otto capitoli complessivi, in questo primo volume ne vengono mostrati cinque, dai quali una cosa è chiara, Nymphomaniac non è un film porno, come l’operazione di marketing che lo ha preceduto forse voleva far credere, ma un’opera molto complessa. Al di là di immagini forti che certo non mancano (tra cui una galleria fotografica di membri maschili in primo piano), il film rimanda, ancor di più che in precedenza, al grande universo creativo del regista, alle sue paure, al suo profondo pessimismo che si materializza in figure femminili disturbate e disturbanti che attraversano diverse fasi di un martirio, donne dilaniate, fisicamente e mentalmente, simbolo di tante nevrosi contemporanee che impediscono il vero contatto e che si rifugiano in una sessualità meccanicamente ripetuta e fine a sé stessa. L’acuta sofferenza della protagonista, sempre suggerita nel corso di questo primo film, esplode proprio sul finale dell’ultimo capitolo La scuola di organo.
Sui titoli di coda le immagini in anteprima del secondo volume fanno capire la “deflagrazione” che probabilmente avverrà nel cuore del film. E, quando si tratta di Von Trier, la cosa spaventa e intriga allo stesso tempo.
Elena Bartoni