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Qualcuno da amare – Recensione

Un gioco di ruoli, equivoci, bugie e verità, realtà e finzione. Tre personaggi e un viaggio nei sentimenti. Presentato in concorso al Festival di Cannes del 2012, Qualcuno da amare, titolo occidentale banale e per di più fuorviante, traduzione italiana dell’originale Like Someone in Love (che prende in prestito il titolo di una canzone di Bing Crosby che nel film si ascolta nella versione di Ella Fitzgerald), è l’ultima perla in quella collana rappresentata dalla filmografia del maestro iraniano Abbas Kiarostami.
La storia, semplice e lineare, è quella di uno strano ménage à trois che ruota attorno ad Akiko (Rin Takanashi), una bellissima studentessa che di notte fa la escort di nascosto dal suo gelosissimo fidanzato. Una notte accetta controvoglia di incontrare un anziano ex professore universitario, Takashi (Tadashi Okuno) che si dimostra molto premuroso nei suoi confronti. Dopo una notte casta, il professore accompagna la giovane all’università. Lì fuori, l’anziano si imbatte in Noriaki (Ryo Kase), il fidanzato di Akiko che lo scambia per il nonno della ragazza. Il professore sta al gioco dispensando consigli ai due giovani mentre percorrono le strade della città in auto. Ma la verità verrà a galla con tutte le sue conseguenze.
Dopo le campagne toscane della sua opera precedente, Copia conforme, il grande regista (Palma d’oro a Cannes nel 1997 per Il sapore della ciliegia) approda in Giappone dove gira un film completamente nipponico per ambienti, atmosfere, personaggi. Ancora una volta è una storia di strani rapporti d’amore a essere al centro del viaggio di tre personaggi di cui si mettono in discussione ruoli, certezze, sentimenti. 
Il tema del doppio, della moltiplicazione dei punti di vista, è ben esemplificato dall’espediente visivo del riflesso usato dal regista con grande maestria in alcune scene in cui si gioca su sorprendenti immagini riflesse da vetri, specchi, schermi, tende.
La bellezza di alcune scene parla da sola, prima fra tutte quella della protagonista che fa girare il suo taxi intorno alla piazza della stazione dove si trova la nonna nella vana attesa da molte ore di incontrarla (una scena già presente in alcune riprese preparatorie di otto anni prima che il regista aveva realizzato come appunti per un film da farsi).
In una Tokyo straniata e straniante, suggestivamente inquadrata dai finestrini di un’auto o dalle finestre di un appartamento, Kiarostami suona la sua elegia di “esiliato” di lusso in un film giapponese prodotto in Francia da Marin Karmitz che per produrlo ha raccontato di aver venduto all’asta una scultura di Yves Klein alla quale teneva moltissimo (ma alla fine si è detto felice di aver barattato una splendida opera d’arte per un’altra splendida opera d’arte).
L’opera di Kiarostami è cinema di spazi chiusi (ancora una volta a farla da padrone è l’abitacolo di un’automobile), di atmosfere rarefatte, di grande eleganza formale, di emozioni e sentimenti umani, di sospensioni, di frasi non dette o, al contrario, di fulminanti verità messe in bocca ai protagonisti.
Un film non per tutti (anche se più “leggero” di altre opere del maestro) ma di indubbia qualità artistica in cui la bellezza di una semplice inquadratura basta a restituire la forza poetica di una struggente sinfonia di affetti mancati e prepotentemente distrutti da un sasso lanciato contro un vetro.

Elena Bartoni 
 

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