Rampart – Recensione
Disperazione, affermazione di se stessi, rabbia, vizio, senso del dovere che combatte con il proprio senso di giustizia. Tutto questo è “Rampart” un film che mette in luce una grandissima interpretazione di Woody Harrelson, ma che porta troppa carne al fuoco.
Nella sezione Rampart del dipartimento di Polizia di Los Angeles vige la corruzione e il detto homo homini lupus. Il violento detective Brown (Woody Harrelson) dovrà vedersela con altri agenti che cercheranno di metterlo in cattiva luce per salvare la propria pelle.
A vedere i credits del film quasi ci si spaventa per l’immenso talento riunito nel creare un’unica pellicola: sceneggiatura scritta da James Ellroy con il regista Oren Moverman, già Orso d’argento a Berlino per “Oltre le regole – The Messenger”, cast spettacolare con Woody Harrelson di nuovo sulla cresta dell’onda, Robin Wright, Steve Buscemi, Sigourney Weaver solo per citarne alcuni.
Eppure le attrattive di “Rampart” si fermano, purtroppo, a questi nomi, non riuscendo a rispettare le premesse di quella che poteva essere una tra le opere da tenere d’occhio quest’anno.
La Los Angeles tratteggiata da Ellroy non è quella patinata di Hollywood, ma quella corrotta, dei sobborghi ricchi di droga e corruzione della polizia. Lo scrittore, avvezzo a questo tipo di racconti, trasporta i suoi pensieri le sue sensazioni in quello che diventa, con una semplicità che solo i grandi attori posseggono, il suo alterego: Woody Harrelson, alias Dave Brown.
Quello del protagonista è un cammino nei gironi dell’inferno, ma con un percorso opposto rispetto a quello di Dante nella “Commedia”. Quella di Dave è una discesa nelle fiamme degli inferi, nel trovarsi faccia a faccia con i propri vizi, limiti e se stesso. Ma se da una parte Harrelson è l’arma vincente, dall’altra il suo personaggio incarna troppe tematiche per essere sviluppate in un’unica pellicola da 1 ora e 40.
Nel detective infatti convergono tutti gli elementi dell’immaginario classico di Ellroy finendo per rompere gli argini, per strabordare in un film che porta in superficie troppi elementi senza poi riuscire a trovare un modo per uscire da questo intricato labirinto.
Non c’è catarsi, non c’è una caduta e uno spiraglio di luce. La sensazione continua è quella di essere chiusi in una scatola, Los Angeles e la vita, dalla quale ci si sente opprimere e soffocare grazie anche alla regia chiusa, buia o accecante, attaccata ai suo personaggi di Moverman.
Qualcosa però nella struttura generale di “Rampart” non funziona e trasforma l’opera in qualcosa di difficile da continuare a seguire. La causa principale è da imputare alla mancanza di una vera e propria struttura narrativa, un filo unico che leghi le varie scene e tenga incollato lo spettatore che faticherà dopo la prima mezz’ora a tenere alta l’attenzione.
Il film di Moverman è un film poco riuscito, a tratti confuso, che poteva essere grande, ma che si limita ad un labirinto claustrofobico senza via d’uscita, né per i protagonisti, né per lo spettatore.
Sara Prian