Recensione di: 127 Ore
Danny Boyle è tornato. Il che non va inteso soltanto come uscita nelle sale di “127 ore”, ma soprattutto come linea registica, come modo di osare, mescolare linguaggi diversi e raccontare una storia.
Dopo film meno noti come “Millions” (2004), e “Sunshine” (2007), e il popolare e pluripremiato “The Millionaire”, il regista di film controversi, forti e sagaci ci racconta la storia vera di Aaron Ralston, l’ingegnere con la passione per il trekking che nel 2003 rimase bloccato con il braccio in una roccia proprio in una delle sue escursioni.
Aaron è intelligente, giovane ed egoista, i viaggi che intraprende sono il massimo della sua esaltazione caratteriale, cercando sempre di spingersi oltre e affrontare un nuovo ostacolo. Sfida se stesso e i miracoli della natura, ma anche la vita è pronta a presentarti il conto e per Aaron si mostra sottoforma di un masso che lo incastra per 127 ore in un canyon dello Utah, fino al momento della svolta, che arriva un attimo prima della fine, nella catarsi della disperazione sopraggiunge la sopravvivenza e Ralston decide di riappropriarsi della sua vita liberandosi del fardello che lo imprigiona arrivando a compiere un atto estremo.
Quello che Boyle ci mostra è un film che inizia con musica a tutto volume e scenari mozzafiato presi in prestito dai canyon dello Utah, portandoci fino alle viscere della terra, simultaneamente con l’accrescere della storia, resa accattivante dai siparietti che il protagonista, impersonato da James Franco in un’ottima vena artistica, ci propone.
Munito di telecamera e pochissimi viveri, si lancia in alterni viaggi onirici e allucinazioni che lo conducono nei meandri della sua memoria: infanzia, rapporti genitori–figli, ex fidanzate, scalatrici da poco incontrate e visioni futuristiche. Tutto viene preso in esame e tutto forse avrà una risposta o una redenzione. Caratterizzati da divertenti ed esperti transiti registici, i flash back ci aiutano ad evadere insieme ad Aaron dalla situazione in cui si trova e rendere la sceneggiatura coinvolgente e modulata.
La bravura di Boyle sta nel non cadere in facili sentimentalismi, e nel non rendere ancora più drammatica la storia che ha voluto raccontare, cercando di attenersi il più possibile ai video ritrovati dell’escursionista e al suo libro, il biopic “Between a rock and a hard place”.
Non ci resta che dire: bentornato Danny, e non lasciarci più!
Sonia Serafini