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Recensione di: Biutiful

Nel nuovo attesissimo film di Alejandro González Iñárritu (“Amores Perros”, “21 Grammi” e “Babel”), in concorso nell’edizione numero 63 del Festival di Cannes, vi è un unico protagonista che troneggia in tutto l’intero script: Uxbal, ovvero un Javier Bardem capace di riempiere la scena con una recitazione ai limiti della perfezione. Questa interpretazione gli è valsa, proprio al Festival, la Palma d’oro come Miglior attore, ex equo con l’italiano Elio Germano. Le perplessità sulla scelta, da parte della giuria, di dividere il Premio a metà, nonostante si riconoscano le indiscusse doti dell’attore romano, sono numerose ma da affrontare in altre sedi… Il regista messicano, dopo il divorzio dallo sceneggiatore Guillermo Arriaga, si discosta completamente dall’impianto narrativo in cui i personaggi soccombono al reiterato gioco dei destini incrociati, caratteristica, fortunatamente sdoganata, di tutta la sua produzione precedente. Iñárritu è un maestro nel raccontare storie di profondo dolore, calcando l’obiettivo della macchina da presa sugli accenti gravi, ma nello stesso tempo (e questo va ammesso!) senza mai eccedere nel pietismo. Un uomo sta morendo di cancro e cerca, in tutti i modi, di sistemare le faccende in sospeso e di lasciare ai propri figli la possibilità di un futuro dignitoso. Se da un lato possa essere criticata l’eccessività nell’inserire storie parallele a quella principale (clandestini senegalesi, sfruttamento della manodopera cinese, bipolarismi e persino capacità paranormali), nelle quali, nonostante la lunga durata del film, la sceneggiatura inevitabilmente inciampa, rimane impresso il volto di un protagonista reale, inserito in un malsano ed illegale contesto sub urbano, che nei vicoli di una Barcellona nascosta e logora, trova la sua personale verità ineluttabile. Questo è quello che paradossalmente può essere definito il film della maturità (nonostante l’ancora insufficiente produzione del regista), nel quale Iñárritu abbandona gli eclatanti giochi di casualità, per soffermarsi su una vicenda intima e solitaria, dove la regia indugia ma non sovrasta, sottolinea ma non eccede.

Serena Guidoni

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