Recensione di: Cella 211
Pellicola spagnola dell’anno nel 2010 (ben 8 premi Goya e tutti di primo piano) ‘Cella 211’ è un film di denuncia duro e crudo, che racconta le vicende di una giovane guardia penitenziaria costretta a fingersi detenuto per sopravvivere a una rivolta scoppiata nel carcere. Una storia drammatica che lascia lo spettatore impotente dinnanzi all’ineluttabile svilupparsi degli eventi. I flash back riportanti alla calma quotidiana aumentano la repulsione per la tragica spirale degli accadimenti. Il tema principale è sicuramente la condizione delle carceri spagnole (attualissimo anche per la situazione italiana), dove i detenuti subiscono, oltre che la giusta condanna che devono scontare, anche gli umori e le violenze del personale di sorveglianza. Al momento della lettura delle richieste dei detenuti impossibile non pensare come sia possibile che sia necessario arrivare all’esasperazione e alla lotta per far valere diritti che, nell’immaginario comune, sono alla base della vita sociale. Ma la denuncia va oltre questo. Il regista Daniel Monzón prova a mostrare come le istituzioni, e di conseguenza le persone che le rappresentano, sfruttano attori inconsapevoli per i propri fini, manipolandoli e poi lasciandoli alla propria sorte per perseguire una politica di autosopravvivenza spietata. Tutti utili, nessuno indispensabile, tutti sacrificabili. Fino ad arrivare all’assunzione che la parola del galeotto Malamadre può contare più di quella ‘ufficiale’ delle alte cariche dello stato. ‘Si fa quel che si può’.
Daniele Riccardelli