Recensione di: Contagion
Steven Soderbergh è, come è noto, regista dagli esiti diversissimi, capace di passare da grandi produzioni piene di star a film indipendenti e coraggiosi. È un regista capace di firmare opere così diverse che talvolta si fa fatica a ricondurre alla stessa mano.
Ci sono volte poi in cui il suo cinema funziona un po’ come il videotape del titolo del suo fulminante esordio (Sesso bugie e videotape diretto dal regista non ancora trentenne ottenne una pioggia di consensi e la Palma d’Oro a Cannes nel 1989): registra spaccati di realtà (presunta) molto vicini al reale talvolta con eccesso di crudo realismo (quasi usasse, appunto, un videotape al posto della cinepresa). E’ il caso di questo Contagion in cui, attraverso il dipanarsi di diverse storie che scorrono parallelamente, il regista filma un’inquietante concatenazione di eventi che ha una stretta parentela con la realtà. Un virus letale si sta diffondendo rapidamente in tutto il mondo. La narrazione inizia col “giorno 2”: Beth Emhoff fa scalo a Chicago per prendere il volo che la riporterà a casa dopo un viaggio di lavoro a Hong Kong. Quarantotto ore dopo, a Minneapolis la donna muore gettando nella disperazione il marito Mitch (Matt Damon). In contemporanea in altre parti del mondo (Chicago, Londra, Tokyo) altre persone hanno gli stessi sintomi che hanno portato Beth alla morte: febbre, tosse, convulsioni. I ricercatori del Centro USA per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie lavorano per comprendere quale agente patogeno stia provocando l’epidemia letale e per tentare di bloccare il contagio. Il vice direttore Ellis Cheever (Laurence Fishburne) tenta di placare il panico e invia la dottoressa Erin Mears (Kate Winslet) a Minneapolis a valutare i rischi dell’epidemia. Nel frattempo la dottoressa Hextall (Jennifer Ehle) lavora per tentare di sintetizzare il vaccino. Da Ginevra la dottoressa Orantes dell’OMS (Marion Cotillard) è inviata a Hong Kong alla ricerca dell’origine del contagio. Mentre cresce il numero dei morti, il blogger Alan Krumwiede (Jude Law) inizia a diffondere una crescente paranoia convinto che la popolazione non stia ricevendo le corrette informazioni su quello che accade realmente.
Un po’ come in Traffic, Soderbergh compone un mosaico di storie diverse che pagano il debito a certo cinema corale di altmaniana memoria. Intriso di maggiore realismo rispetto ad altri film del genere (un caso su tutti Virus letale con Dustin Hoffman) anche se talvolta eccessivamente crudo (è il caso della scena dello scoperchiamento del cranio della Paltrow) e di cura per il particolare (le indagini di laboratorio sulla struttura del virus, tutte scientificamente corrette), il film rischia però di perdere qualche pezzo strada facendo. E’ il caso dell’affascinante dottoressa dall’accento francese rapita da un gruppo di hongkonghesi di cui quasi ci si dimentica fino a ritrovarla in una scena finale di edificante altruismo (ecco “l’americanata” di turno). Ma, punto a favore di Soderbergh, la pellicola si fa apprezzare per qualche spruzzatina di etica qua e là, normalmente assente in altri film sulle pandemie: il comportamento del vice direttore del Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie ci fa domandare se se sia corretto in certi casi cercare di mettere al sicuro i propri cari prima degli altri cittadini. E che dire delle tirate contro le istituzioni del blogger attivista?
Il clima è sospeso tra il catastrofico e il claustrofobico: non si può aiutare nessuno, non si può scappare, crescono ansia e ostilità, il mondo va alla deriva tra paure primordiali e istinto alla sopravvivenza. Si inizia con le più elementari paure di contatto e si arriva alla crisi totale coi negozi saccheggiati e le frontiere chiuse. La società e il suo disfacimento. La metafora potrebbe risultare fin troppo evidente, ma Soderbergh ha precisato che non si tratta di una vendetta della natura sull’uomo. Nessuna metafora ecologista insomma, come non c’è nessuna “punizione” per infedeltà nella storia della prima donna contagiata. Anche questa volta il regista si aiuta (un bel po’) con un cast lussuosissimo: basta scorrere i nomi e la molla per attrarre il grande pubblico nelle sale è un gioco da ragazzi. Come in altre sue grandi produzioni, Soderbergh non convince in pieno e anche quel finale che mostra gli avvenimenti del fatidico “giorno 1” fa un po’ sorridere con quello strano incontro tra due animali “sbagliati” (non sveliamo di più). Il film è stato presentato fuori concorso alla 68ma Mostra del Cinema di Venezia con ovvia passerella di star.
Elena Bartoni