Recensione di: Cyrus
Meno male che nel cinema c’è ancora chi si occupa di fornirci non solo una storia efficace, ma anche una sceneggiatura che ne risalti gli aspetti più preponderanti, e nello stesso tempo non tralasci praticamente nulla. Questo è, a mio avviso, il merito più importante che và attribuito ai fratelli Jay e Mark Duplass, registi e scrittori di questa deliziosa commedia americana. Commedia americana? No, non è un errore di battitura, perché, fortunatamente, dall’infaticabile fucina degli States non escono solo ed esclusivamente prodotti “Apatow style”, ma persino racconti che sappiano coniugare il divertimento (che non significa necessariamente la superflua risata a crepapelle), e uno stile di regia tutt’altro che didascalico. Siamo quasi sopraffatti dalle vertigini quando, sin dalle prime inquadrature, “Cyrus” ci appare un documentario girato all’insaputa del protagonista (un “sobrio” e più che mai convincente John C. Reilly). Entriamo furtivamente, con la sua ex moglie, nella sua casa; ne spiamo lo stile di vita e facendogli fare un balzo improvviso, penetriamo dirompenti nella sua intimità. Lo stile documentaristico, con tanto di zoom repentini, apparentemente disorienta, ma nello stesso tempo ci concede il lusso, quasi del tutto disavvezzo nella commedia (specialmente americana!) di una sorta di immedesimazione. L’incontro con la futura amante (una splendidamente “matura” Marisa Tomei), è semplice e reale, poiché privo del benché minimo orpello cinematograficamente costruito per creare un romanticismo ormai obsoleto. Tutto procede nel migliore dei modi fino a quando il terzo elemento del triangolo non irrompe nella serenità della coppia. Il personaggio che da il titolo al film, interpretato da Jonah Hill, è quello di un figlio “casalingo” legato morbosamente alla madre, tanto da ostacolare in tutti i modi la sua nuova relazione. In Italia vengono chiamati bamboccioni, ma in Cyrus c’è qualcosa di malsano, e non tarderemo a scoprirlo. I dialoghi si sviluppano secondo un ritmo lento, ricco di pause e prolissità; ma questa peculiarità, che potrebbe annoiare i più, è proprio quella cifra stilistica che consente di apprezzare l’infinita gamma di contenuti all’interno del film.
Serena Guidoni