Recensione di: “Dalla vita in poi”
Cinema italiano, dove sei finito? Nei meandri, forse, di vecchi teatri di posa i cui corridoi odorano di stantio? Ti sei perso, forse, fra migliaia di sceneggiature che non rendono giustizia alla tua Storia? Queste sono domande inevitabili… “Apprezzare lo sforzo” è un’affermazione obsoleta che bisogna quantomeno scartare, se adoperarla significa accontentarsi di quello che il nostro cinema ha da offrirci. Gianfrancesco Lazotti ha una carriera che, perlopiù, tocca le produzioni televisive e questo, purtroppo, si vede nel suo ultimo lungometraggio dal titolo “Dalla vita in poi”. Il richiamo a Cyrano De Bergerac è suggestivo nei primi minuti del film, ma poi finisce col scadere nella mancanza di poesia, prerogativa essenziale per citare anche solo per un attimo il capolavoro di Edmond Rostand. Una cosa va ammessa: il film non cede il passo al pietismo, affrontando un tema socialmente doloroso come quello della disabilità e della difficoltà di rivalsa di un carcerato. Partendo, oltretutto, dal presupposto che la vicenda narrata fa riferimento a personaggi reali, ci si aspetterebbe una maggiore attenzione ad aspetti emotivamente più efficaci. Quello che rimane è, invece, una amara consapevolezza che sceneggiature realmente attraenti sono una perla più unica che rara nel panorama cinematografico italiano. Le prove d’attore dei protagonisti (Cristiana Capotondi, Filippo Nigro e Nicoletta Romanoff) non convincono, “supportate” da una regia essenzialmente poco innovativa e, per l’appunto, fin troppo televisiva.
Serena Guidoni