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Recensione di “Dune”

Può un film bollato come mediocre dalla critica dell’epoca e stroncato al botteghino dal pubblico (nel 1984 incassò appena 27 milioni di dollari a fronte dei 45 spesi) diventare 20 anni dopo un cult tra tutti i cinefili di fantascienza? Dune è uno degli esempi più lampanti. Diretto dal regista surrealista David Lynch il film è la trasposizione cinematografica dei racconti fantastici omonimi di Frank Herbert del 1965.
In un futuro dove il ventesimo secolo è un granello insignificante nel progresso dell’uomo (al contrario di molti film futuristici che inspiegabilmente fanno risalire a quel periodo un qualsiasi evento significativo per il futuro) i casati più nobili si combattono con l’inganno per la supremazia del pianeta Arrakis, fonte della spezia Melange, che permette lo spostamento interplanetario senza muoversi realmente.
Nonostante la vicenda non particolarmente originale, paragonabile alle gesta del classico messia medievale che realizza una profezia atavica guidando la rivolta di un popolo soppresso, il film risente (positivamente, oggi si può dire) del tocco visionario del regista. Anche se partendo da un tema abbastanza comune non è però facilissimo seguire, soprattutto all’inizio, gli intrecci tra le diverse dinastie, i diversi pianeti e le diverse specie viventi e i loro nomi tolkeniani. Superato questo scoglio i 137 minuti del film risultano avvincenti e, seppur non velocissimi, comunque affascinanti. Fotografia suggestiva ed effetti che, anche se datati, non sfigurano. Il tutto condito da flash-forward criptici propri dello stile di Lynch. Nella colonna sonora anche alcuni brani dei Toto.
Il cast di questo kolossal fantascientifico è composto da nomi di primo piano del genere, tra cui Patrick Stewart (il capitano Jean-Luc Picard di Star Trek) e Sean Young (Blade Runner). A questi si aggiungono Silvana Mangano (nel suo penultimo film), Max von Sydow (Padre Merrin ne ‘L’esorcista’), Jürgen Prochnow, il protagonista Kyle MacLachlan (pupillo del regista e protagonista anche di ‘Velluto Blu’) e Sting (forse nel momento più alto della sua “carriera” cinematografica).

Daniele Riccardelli

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