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Recensione di: Eraserhead – La mente che cancella

Disturbante, visionario, inquietante. È un Lynch già straordinariamente maturo quello dietro la macchina da presa del suo esordio cinematografico: Eraserhead. In Eraserhead c’è già tutto condensato il Lynch a venire, le sue visioni, i suoi ambienti, le sue ossessioni; tutto questo fa di Eraserhead un vero e proprio film-manifesto del cinema di Lynch, un sunto straordinario di una poetica (se si può paralare di poetica) che, non ancora sviluppata, è già capace di sondare l’enigma e il mistero del contemporaneo, portando il cinema oltre la narratività e spostandola su un piano diverso dove, d’altra parte, solo il cinema può arrivare. Ma se Eraserhead è un film programmatico, al tempo stesso è un film completo, maturo, capace di cogliere con estrema lucidità le paure e le ossessioni di un’epoca e di una nazione senza mai scadere nel particolarismo storico, e portarle sullo schermo nella loro pardossale, disturbante e visionaria forma.
Dietro alla personale paura per la paternità lynchana si nasconde il terrore per ciò che è avvenire, la precarietà di un futuro che si manifesta sottoforma di orrendi mostri, feti deformi, alieni, vermi striscianti, viscidi, terrificanti prolungamenti di un corpo che è solo sede di insicurezza, instabilità, generatore di orrori (o, che al massimo, sarà buono per produrre gomme da cancellare). È “il demone sotto la pelle” dell’esordio cronenberghiano di qualche anno prima, il claustrofobico attacco impersonale di ciò che è esterno dell’esordio carpenteriano del 1976 (Assault on precint 13) o ancora l’Alien di Ridley Scott del 1979, per tornare di nuovo a Lynch con il terrore per il deforme di Man The Elephant man del 1980 e i viscidi vermoni sotterranei di Dune del 1984. Il diverso, l’esterno, il nascosto, l’impersonale: Eraserhead incarna queste paure e le estremizza, le deforma, le dilata fino a farle esplodere, incorniciandole in un mondo inquietante, meccanico, sporco, abbandonato, ossesivamente simmetrico, geometrico, contrastato.
Ma è anche un mondo silenzioso in cui musichette da grammofono e rumori, suoni del quotidiano rimbobano, fanno eco: la paura e l’ossessione non può essere comunicata, o meglio nessuno può o vuole ascoltarla. Il mostro fa capolino dentro di noi, non-esseri fatti di corpi ridotti a involucri, dei fragili gusci d’uova, il cui destino è manovrato da leve meccaniche situate in un non-luogo, mavovrate da non-individui. Non resta allora che lasciarsi trasportare dalla tetra musichetta da grammofono e ballare con i nostri mostri, abbracciarli e convivere con loro la fragile e insicura esistenza della strana creatura chiamata uomo: non c’è speranza in Lynch ma solo rassegnazione al mistero, un quieto vivere di facciata, con la consapevolezza che il sonno della ragione (o il contrario?) genera sempre mostri. E noi siamo esseri in perenne dormiveglia.

 
Lorenzo Conte

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