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Recensione di: Gli sfiorati

Sandro Veronesi l’omonimo romanzo lo scrisse nell’ormai lontano 1990, e la generazione che analizzava era quella dei mitici anni Ottanta. Ormai quelle atmosfere, quello stile di vita, giovanile e non, sono divenute “stantie” ed obsolete; i termini e le condizioni sono cambiate così radicalmente da tramutare il ricordo in un dolorosa nostalgia. Matteo Rovere alla sua seconda regia dopo l’esordio nel 2008 con Un gioco da ragazze, si affida ad un grande successo come il romanzo di Veronesi per osservare la sua stessa generazione e trasporla sullo schermo. Ma chi sono gli sfiorati del titolo? Sono una categoria non ancora classificata di personalità che vivono la propria esistenza al massimo delle proprie possibilità, custodendo in se stessi il segreto di una profonda sensibilità che mai sveleranno a chi li circonda, venendo,di conseguenza, tacciati di superficialità. Sono delle personalità fragili ed incomplete ma che svolgono un’esistenza non prima di rischi e spesso “gli altri” sono incapaci di comprendere cosa si cela dietro l’apparente consapevolezza di se. Ma quali sono li strumenti con i quali individuarli? La risposta ce la fornisce la grafologia, ovvero lo studio che consente di desumere delle caratteristiche psicologiche di un individuo attraverso l’analisi della sua grafia. E’ quest’ultima la professione del protagonista Mete (interpretato da Andrea Bosca), individuo solitario ed introverso, se non fosse per la presenza di due amici Bruno e Damiano, che si ritrova, di punto in bianco, a dover condividere l’appartamento con la sua sorellastra Belinda. Figli dello stesso padre, sono costretti a guardare passivamente l’avvicendarsi del matrimonio tra la madre di Belinda e il loro padre, ed allo stesso tempo combattere contro un desiderio ed attrazione non convenzionale. Se sulla carta il romanzo regge l’urto di un’argomentazione forte e perturbante, non si può dire lo stesso del film, vittima di un stile cinematografico fin troppo acerbo e di mucciniana memoria, che trascende completamente dai personaggi che ha a disposizione. Il corollario di caratteri che ruotano intorno al protagonista sono eccessivamente stereotipati e faticosamente digeribili, come quello di Asia Argento che interpreta una manager schizofrenica in continua lotta per farsi amare dagli uomini, costretti a fuggire una volta conosciuta meglio. Pur apprezzando il tentativo di dipingere una generazione, quella dei giovani di oggi, così frustrata ed in balia degli eventi, il film fatica a coinvolgere.

Serena Guidoni

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