Recensione di: Gran Torino
Clint Eastwood, seduto in veranda a bere birra, è l’America. E la Gran Torino, simbolo di una nazione perennemente oversize, è lo spirito americano.
Cinico e con l’animo indurito dai sensi di colpa, Walt Kowalski assiste impotente all’invasione dei vietnamiti di etnia Hmong nel proprio quartiere. Ma scoprirà presto che sono molto più meritevoli di rispetto alcuni di loro di quanto non lo siano i propri figli e nipoti; ed arrivando per questo, in un commovente finale, all’estremo sacrificio pur di salvare il futuro di una famiglia Hmong e, in senso lato, di una nazione intera.
Dissacrazione del falso mito del politically correct; possibilità di preservare i valori della propria terra e di aprirsi a nuovi popoli e culture senza che in ciò vi sia contraddizione. Ma soprattutto, una riflessione sulla stupidità della vendetta che, fatta da chi per anni ha interpretato l’Ispettore Callaghan ed è stato per questo tacciato di fascismo, assume connotati al contempo catartici e crepuscolari. E che eleva questo immenso capolavoro a testamento artistico di Clint Eastwood.
Mirko Medini