Recensione di: Habemus Papam
A cinque anni di distanza da “Il Caimano” Nanni Moretti, che nel frattempo ha diretto con successo due edizioni del Festival di Torino, torna alla regia con un film che si discosta fortemente dalla vena flemmaticamente polemica, che lo caratterizza, e alla quale siamo abituati. “Habemus Papam” ha rispettato, in fase di produzione, tutti i canoni morettiani: set blindatissimo, nessuna notizia sulla sceneggiatura, ciak top secret. Se erroneamente ci si aspettava una sagace critica che avrebbe fatto tremare il Vaticano, il regista capitolino non punta il dito, anzi, compatisce “la sventura” che può abbattersi su un uomo comune “costretto” a diventare papa. Michel Piccoli da volto ad un neoeletto pontefice colto da un’inaspettata crisi depressiva, a causa del profondo senso di inadeguatezza nei confronti di un incarico così importante. Quello che vediamo rappresentato, non è il delirio di onnipotenza di chi ha la possibilità di plasmare innumerevoli menti, ma bensì è il disagio del non sentirsi all’altezza, dell’impossibilità ad accettare il gravoso compito e “obbligo” nei confronti di milioni di fedeli. Ad accorrere in aiuto del timoroso pontefice ecco il ritorno della psicoanalisi, “figura retorica” tanto amata da Moretti, così fastidiosamente precisa e saccente nel ricercare le radici del malessere in una primordiale mancanza d’affetto. E’ ancora lo stesso Moretti, dopo “La stanza del figlio”, a vestire i panni del “più bravo” fra gli strizzacervelli che, imbrigliato nel rigido codice vaticano, è anche il motore trainante della riflessione sulla deontologia cattolica, che impedisce l’abdicazione nei confronti del potere voluto da Dio. Se tecnicamente e scenograficamente è ineccepibile (la Cappella Sistina dove si riunisce il conclave è stata interamente ricostruita negli studi di Cinecittà), il film viaggia su livelli di attenzione che a tratti risultano altissimi (vedi gli esilaranti dialoghi fra lo psicoanalista ateo e i cardinali, fra una partita di Scopa e un torneo di pallavolo!) e momenti nei quali ci si perde troppo nel disagio dell’uomo, ma senza capirne sino in fondo le ragioni. Certo la trama ha la sua perturbante originalità (quando mai un uomo di potere rinuncia a quest’ultimo perché conscio della sua inadeguatezza?), ma in sostanza il film si perde, forse, un po’ troppo nel mutismo di una riflessione solo interiore.
Serena Guidoni