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Recensione di: I baci mai dati

I baci mai dati ci presenta l’Italia come il cinema italiano ce la racconta da tanto (troppo) tempo. C’è tutto quello che ci si aspetta. Una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi, composta da: marito fallito e assente, moglie frustrata vestita da ventenne, figlia che vorrebbe essere Paris Hilton; una gioventù che sente la necessità di essere belli e dannati (e drogati) per avere successo; una fattucchiera che ammalia donne insicure e scontente; un politico viscido e pederasta; un prete caricatura di se stesso. Ci sono poi la superstizione, la superficialità, la disperata necessità di illusioni e speranze, tutta un’umanità a caccia di fama e soldi facili, che ambisce a vincite miliardarie al gioco e al successo dei reality show. Tutto questo in un contesto dove l’incomunicabilità e le contraddizioni regnano.
Ci sono tutti, insomma, i cliché di un’italietta che fa pena. Ci sono tutti e non c’è nient’altro: l’Italia sembra tutta qui. Siamo a Librino, periferia di Catania, ma il film trascende il regionalismo e spaccia per l’Italia intera quella che in realtà ne è solo una parte, la peggiore. Così Roberta Torre abbandona il linguaggio onirico a cui ci aveva abituati per immergersi nel realismo, fermandosi però al pessimismo. Eppure c’era voluto tanto a smontare gli stereotipi dell’italiano baffi neri-pizza-mafia-mandolino.
Addentrandosi nel copione, poi, si trovano dialoghi tanto stereotipati da risultare scontati, personaggi che scompaiono e ricompaiono senza mai acquisire spessore, e qualche goffo tentativo di comicità mal riuscito.
Altrettanto goffo è il tentativo di un finale lieto e speranzonso, attraverso un paio di colpi di scena mal spiegati che, privi di poesia e stimolante ambiguità, finiscono per essere banali e superficiali, come le speranze dei personaggi del film, che si affidano al dono miracoloso della protagonista Manuela, novella Bernadette. D’altronde, anche la svolta iniziale, come tutti gli snodi principali della storia, era stati liquidato dal primo all’ultimo con estrema fretta e semplicismo.
La regia, all’insegna del “vorrei ma non posso”, prova ad essere d’autore ma deve essere consapevole di non riuscirci, se si limita ad indugiare sulla cosa più bella del film: la scollatura di Donatella Finocchiaro.
Tirando le somme, I baci mai dati sembra incarnare dell’Italia tutto ciò che critica, in un lamento senza fine che alimenta se stesso. Un modo di essere italiani di cui dovremmo vergognarcie che dovremmo voler cambiare, anzichè continuare a rappresentarlo in film che non fanno più ne’ ridere ne’ piangere, semplicemente annoiano.
Ci siamo sempre detti che i film ci descrivono così perché l’Italia è questa, ma forse dovremmo cominciare a pensare che l’Italia è così anche perché il suo cinema è questo. Senza dare la colpa solo e soltanto al Grande Fratello, altro cliché riproposto nel film, ovviamente.

Peccato, perché il cast non era affatto male. Bella anche la canzone sui titoli di coda (“Oltre”, di Erica Mou), di cui però gli autori avrebbero dovuto ascoltare meglio le parole.

Carlo Garofalo

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