Recensione di: Il Cigno Nero – Black Swan
Thriller psicologico, dramma iconografico, horror sui generis o film d’autore? Tentare di affibbiare delle definizioni all’ultimo lavoro di Darren Aronofsky, è indubbiamente impossibile, ma anche inutile. Qualificare un film in un genere cinematografico ben definito è un’operazione che rende la vita più semplice agli spettatori (consci sin dall’inizio su ciò che vedranno!), ma che non tributa giustizia al lavoro di un autore che mette in tavola carte alte, anzi altissime, ma che nello stesso tempo, alla mano successiva, è capace di bluffare, o meglio “ingannare”. Con “Black Swan” il regista dei magnifici “π – Il teorema del delirio” (1998) e “Requiem for a Dream” (2000), e di “The Wrestler”, vincitore del Leone d’oro al miglior film alla 65ª edizione del Festival di Venezia, fa quell’ulteriore salto di qualità nella sua giovane carriera registica, ovvero sporcando quella innaturale perfezione che ci si aspetterebbe da un film che racconta il mondo della danza classica. La ricerca ossessiva della perfezione della protagonista Nina (una superba Natalie Portman già vincitrice per questo ruolo del Golden Globe e in nomination ai prossimi Premi Oscar), si scontra con l’imperfezione più realistica della sua rivale Lily (Mila Kunis). In una diatriba ossessiva e malsana che ricorda film immortali come “Eva contro Eva”, assistiamo ad un’escalation di delirio e perversione, dove la musica, misurata nella prima parte, prende nella seconda il sopravvento sugli eventi e sulla stessa protagonista. Le immagini truculente che ci avevano “disturbato” in “The Wrestler”, qua assumono connotati strazianti, perché il corpo martoriato è quello di una eterea ballerina. La macchina da presa indugia sulle nuche, in uno stile che è diventato a tutti gli effetti il tocco inconfondibile di un regista che con la macchina a mano sa raccontare angosce e cedimenti emotivi di ognuno dei personaggi, tralasciando la possibilità di immaginare cosa siano in grado di fare a se stessi se lasciati da soli. Ambiguo è il comune denominatore della pellicola. Tutti a svariati livelli nascondono un lato della medaglia che rivelano solo in determinati momenti. E’ questa ambiguità a portare lo spettatore su continue false piste che accrescono la suspance di un finale perfetto.
Serena Guidoni