Recensione di: Il figlio di Babbo Natale
Al suo debutto alla regia, Sarah Smith, ci propone un film d’animazione che, in questo ennesimo Natale di dispute all’ultimo sangue al box office, siamo sicuri darà del filo da torcere al Gatto con gli stivali, altro contendente della fetta più “piccola” del pubblico cinematografico. Prodotto dalla Aardman Animations, celebre casa di animazione con sede a Bristol che ha fatto della stop-motion il suo marchio di fabbrica (Galline in fuga, 2000 e Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro, 2005 solo per citarne alcuni), Il figlio di Babbo Natale, è un piacevolissimo cartone che rilegge in chiave moderna, anzi modernissima, una delle leggende più famose della storia. E’ la sera della Vigilia di Natale e Babbo Natale ha una sola notte per fare il giro del mondo e consegnare tutti i regali. Abbandonata la tradizionale slitta trainata da otto bellissime renne, a favore di una gigantesca nave spaziale ideata dal suo primogenito Steve, desideroso di modernizzare ed industrializzare ogni fase della consegna, Babbo Natale si appresta a portare a termine la “missione perfetta”. Ma anche la più sofisticata tecnologia ha un margine di errore. Quando la consegna anche di un solo regalo su seicento milioni viene meno, Babbo Natale e il suo efficientissimo figlio Steve lo ritengono, comunque, un accettabile margine di errore. Ma non per Arthur, l’eccentrico figlio più piccolo, che decide di mettere su una sgangherata e folle missione per consegnare l’ultimo regalo dall’altra parte del globo, a sole due ore dall’alba del Natale. Divertente sino alle lacrime, sofisticato nella scelta delle inserzioni educative, asciutto nelle note moralistiche, geniale nella costruzione degli ironici personaggi “mitologici”, Il figlio di Babbo Natale è un on the road a tutti gli effetti, dove la circumnavigazione del globo e il viaggio dell’eroe coincidono con un cambiamento della personale visione del classico Natale disneyano, e lo spettatore, bambino e non, esce dalla sala con un rinnovato umorismo.
Serena Guidoni