Recensione di: Il raggio verde
Una straordinaria, delicata sinfonia della solitudine. Ecco in poche parole Il raggio verde, uno dei film più (accl)amati del grande Rohmer, oltre che vincitore del Leone d’oro alla mostra di Venezia del 1986. Delphine, segretaria parigina, viene scaricata dall’amica a quindici giorni dalla partenza per le ferie. Inizia così l’odissea nella solitudine della ragazza, fatta di andirivieni nelle località più disparate di Francia, ma il suo dolore di ragazza “diversa” che non ha nulla da dare e che per questo è destinata a stare sola per sempre non viene lenito da nulla, fino a quando non sentirà parlare del raggio verde da un gruppo di anziani turisti. Rohmer costruisce con una grazia e una sobrietà sublimi le vicende della tormentata e difficile Delphine, interpretata magistralmente da Marie Rivière (e che ha co-scritto il film col regista, insieme agli altri interpreti) a metà tra vittima e carnefice di se stessa, costretta ad un esistenza di solitudine coatta imposta dalla società e dal suo voler essere differente a tutti i costi. Una solitudine sottolineata da Rohmer con maestria e senza appesantirla di rimandi morali di ogni tipo, laddove la camera si limita ad osservare con cinica crudeltà la sua condizione di sola in mezzo agli altri (le scene in spiaggia e a Biarritz). Ma questa condizione è una condizione di fatto imposta, che solo nel momento di intraprendere un superstizioso gioco con se stessa fatta di coincidenze e di ritrovamenti di carte e che culminerà con l’imbattersi nella storia del raggio verde (che al contrario di come la intende Delphine, viene spiegata in tutti i suoi dettagli sopratutto come fenomeno fisico esistente); solo in quel momento questa condizione di solitudine verrà a scardinarsi. Delphine si metterà nelle condizioni romantiche di un romanzo che deve finire bene con l’arrivo del principe azzurro.
Il principe azzurro arriva (ma arriva per sua volontà, ormai libera) e la scena finale – che nel montaggio alternato di Rohmer si trasforma in un vero e proprio thriller in cui cercare di vedere il raggio verde acquisisce la stessa vitale importanza tanto per la protagonista, che l’aspetta come conferma, quanto per lo spettatore che si domanda se lo vedrà o no (tanto Delphine, quanto noi stessi), prende il posto del tanto agognato finale romantico – lascia tutto aperto verso, chissà, una nuova illusione di Delphine. Rohmer firma dunque un capolavoro di sobrietà e di equilibrio dove dialoghi, regia e fotografia (la predominanza cromatica del rosso in contrasto con il verde, il vero colore del film, sullo sfondo anonimo perchè naturale della Francia estiva) si compenetrano a vicenda regalando allo spettatore un vero e proprio quadro che in poche pennellate riesce a descrivere con profondità il tema delle solitudine inserendola in una cornice compositiva semplice e aggraziata come solo la macchina diretta da Rohmer sa fare.
Lorenzo Conte