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Recensione di: Il responsabile delle risorse umane

Il viaggio è per antonomasia un buon metodo per ritrovare quella parte di sé (se non l’intero universo personale) che è andata perduta nel caos della quotidianità. Per osservare l’andamento della propria esistenza e valutarne i disagi e le imperfezioni, è necessaria quella giusta distanza fra noi e  il confortevole nido di certezze che ci siamo creati per sentirci in pace. Inoltrandoci in luoghi “sconosciuti”, dove persone e culture sono infinitamente diverse, è proprio qui che abbiamo la fortuna di ritrovare noi stessi. Il road movie, a livello cinematografico, incarna più di ogni altro genere, quel desiderio, che diventa necessità, di rintracciare, o addirittura scoprire, cosa si cela dietro le pesanti maschere che portiamo ogni giorno con condiscendenza. Il responsabile delle risorse umane di un panificio di Gerusalemme, dopo un’esistenza segnata dalla non volontà di responsabilizzarsi (fra le altre cose è del tutto assente con la figlia che tenta di superare il trauma del divorzio dei genitori), quando si imbatte nella morte in un attentato suicida di una dipendente rumena, della quale non sa assolutamente nulla, capisce, nonostante le remore iniziali dovute ad un imposizione dall’alto, l’importanza di restituire dignità ad un corpo intrappolato in una terra straniera. Inizia il suo lungo viaggio in una Romania fredda e lontana, accompagnato da una carrellata di personaggi tragici e bizzarri, con una sola consapevolezza: a quella donna non si deve negare il ritorno nel proprio Paese. Il film corre speditamente lungo due binari assolutamente paralleli. I registri tragico e umoristico giocano al “rimpallo” senza sbalzi eccesivi, sottolineando quanto l’amara ironia della vita sia una ineluttabile verità. L’ambiguità della vicenda si percepisce in molti aspetti, uno dei quali è senza dubbio il fatto che il nome del protagonista non viene mai pronunciato (viene chiamato semplicemente Mr. Risorse Umane), ma il suo corpo è visibile tutto il tempo; mentre la defunta Yulia viene ripetutamente chiamata per nome nonostante il suo corpo non venga mai mostrato. Questa ambivalenza nel linguaggio ci suggerisce una visione di assenza/presenza che porterà all’inevitabile constatazione dell’essere in quanto tale. Le risorse umane sono i propri tratti indefinibili che ognuno ha il diritto/dovere di ricercare, e il Responsabile lo fa, paradossalmente, passando attraverso la morte. Eran Riklis, già acclamato regista de “Il giardino dei limoni”, costruisce questa storia partendo dall’omonimo libro di Abraham Yehoshua, mantenendo e accentuando il registro della leggerezza, che non significa affatto superficialità nell’analisi.

Serena Guidoni

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