Recensione di: Il servo
La lotta di classe secondo Joseph Losey. Girato nel 1963, dopo l’auto esilio del regista in Gran Bretagna per via del maccartismo, Il servo è un complesso capolavoro tutto giocato sull’ambiguo rapporto tra il servo (interpretato da un luciferino Dick Bogarde) e il suo padrone, dove la dialettica tra i due assurge a metafora della lotta di classe rimanendo sempre sul ciglio del simbolismo e del metaforico in un contino rivolgimento di campo che si risolve in una spirale di autodistruzione del padrone nei confronti della sua controparte dialettica (e della sua compagna/complice), fino al punto di non ritorno.
Losey, interpretando perfettamente il rapporto con lo sceneggiatore, scrittore e regista teatrale Harold Pinter, maestro del teatro dell’assurdo, tratteggia un duello mortale tra assoluti e relativi, laddove la tensione è sempre tra il fenomenico della realtà (non v’è dubbio che i due protagonisti siano reali in quanto personaggi di una storia) e il suo trascendersi, dove il rapporto tra parola e immagine raggiunge uno degli apici della storia del cinema.
La regia di Losey, tinta di un bianco e nero splendido, tenue e allo stesso tempo contrastato e netto, si sviluppa in un continuo gioco di specchi e di ombre, laddove è la casa (set e al contempo personaggio inanimato della vicenda) a riorganizzare, silente, la vita dei due protagonisti costringendoli nel suo spazio ambiguo, dove tutto rimanda alla sua immagine riflessa o proiettata (gli specchi concavi e piatti della casa, le ombre proiettate suo muri, perfino le pozzanghere o la porta/libreria, simbolo del “niente è come sembra” che domina il film), quale monito visivo, e allo stesso tempo, suo complementare, rimanda al continuo e ambiguo ribaltamento di rapporto in divenire (verso il basso) tra i due protagonisti. La camera di Losey si muove in carrellate e piani sequenza nell’angusta casa, sfruttando i riflessi e le ombre, contrapponendosi dialetticamente allo svolgimento narrativo delle vicende e alla sua controparte dialogata, fondendosi in un equilibrio perfetto, fino a mostrarsi come tutt’uno cinematografico, coinvolgendo in una parallela dialettica formale, immagine e parola, narrazione e metafora.
Il servo è fin da subito padrone in questo rapporto e la lotta tra i due, pur nella sua ambiguità, tratteggiata con enorme maestria dalla parola pinteriana, è una distruzione progressiva del padrone che si affida completamente al servo fin da subito (fin dall’arredamento della casa, non a caso) e di cui è già succube per il solo fatto di aver iniziato un rapporto del genere; esplode qui la contraddizione e il paradosso il servo è già sempre, hegelianamente, il padrone, e tuttavia questo rapporto è necessario per l’emancipazione del servo. Eppure rimane un sottofondo oscuro in questa distruzione morale e sotterranea del padrone che Losey e Pinter non sciolgono mai, non schierandosi mai semplicemente da una parte, consegnando alla storia del film un personaggio quasi tragico nella sua caduta progressiva verso il basso, fino a che non verrà cacciato da quella stessa casa che pure lui aveva acquistato e che invece ha finito per manovrare il suo destino fino al suo ineluttabile crollo morale, dileggiato ancora dalle ombre ghigananti dei suoi nuovi inquilini.
Il servo è, al suo fondo, il ritratto di una fine di un’epoca e annuncia con largo anticipo i conflitti tra questa e quella della contestazione, evidenziando il cadavere in putrefazione di una classe che, novella Luigi XVI che il giorno della prese della Bastiglia scriverà rien, niente, sul suo diario personale, ignara di quanto sta accadendo fuori dalle loro feste opulente, dalle loro enormi case, al di là dei loro vacui e imbarazzanti discorsi fintamente colti (il graffiante teatrino sul i ponchos e i gauchos), si imputridisce sempre più, senza rendersi conto di essere già morta. Rimane, ancora, dietro la “vittoria” del servo la sensazione che chi prenderà il posto della classe borghese non le sarà migliore, come quelle ombre di corpi nudi senza regole e senza freni che deridono il padrone cacciato mentre trasformano la sua casa in un degradante bordello, devastandola (mentre prima l’ordine per il servo era priorità), sembrano testimoniare.
Lorenzo Conte