Recensione di: Il sesso aggiunto
Una produzione italiana, nessun nome altisonante, un argomento che si presta a narrazioni banali. Tutto spinge ad un pregiudizio negativo nei confronti dell’opera prima di Francesco Antonio Castaldo, Il sesso aggiunto.
Invece il film è una mosca bianca nel panorama cinematografico nazionale. L’autore ci mostra dal di dentro il mondo dell’amore, nelle sue forme patologiche: le relazioni familiari malate e la tossicodipendenza. Quello che ci racconta è la rappresentazione di ogni forma nociva di dipendenza, al ritmo straziante scandito dalla “rota” dell’eroina.
C’è anche un trattato di psicoanalisi, un percorso psicoterapeutico, mai ingenuo ne’ banale, bensì svelato anch’esso dall’interno, lasciando percepire che chi parla al cuore dello spettatore è proprio il cuore dell’autore, e non una semplice narrazione.
Il sesso aggiunto, contrariamente a come ha abituato il cinema nostrano, predilige la profondità dei contenuti alla superficialità dei sensazionalismi, la sobrietà (ma non il buonismo) dei testi, l’eleganza ed il pudore persino nel mostrare scene di sesso o l’atto del drogarsi. E’ un film che vuole parlarci, e lo fa nel migliore dei modi, per mezzo di un cast privo di nomi altisonanti ma pieno di talento, capitanato da una commovente Cloris Brosca.
Volendo trovare il pelo nell’uovo, alcuni dialoghi risultano forzati, alcune cose sono dette (ma dette bene, almeno) quando potrebbero essere fatte capire, ma si legge in questo l’urgenza viscerale di trasmettere un messaggio d’amore positivo e mai melenso: il fine giustifica il mezzo. Francesco Antonio Castaldo immerge lo spettatore nel mondo della disperazione per riportarlo alla vita con un percorso curativo che apre a infinite riflessioni.
Così, l’intreccio ben articolato ed i flashback ottimamente utilizzati, conduconono ad un finale bello perchè inaspettato, un lieto fine in controtendenza perchè trasmette una volta tanto un messaggio di speranza, troppo spesso negato dai film italiani di recente produzione, che preferiscono lasciarci sulla via della depressione. Come se non bastasse la vita quotidiana.