Recensione di: In time
In un mondo non meglio specificato, l’unica unità di misura è il tempo. Fermi biologicamente all’età di 25 anni, gli abitanti devono guadagnarsi letteralmente ogni minuto della loro vita. Inevitabile, la rivalità tra ricchi ereditieri di immortalità e semplici lavoratori in via di estinzione.
L’idea era buona, stimolante, foriera di scenari intriganti per azione e implicazioni di significati su cui riflettere.
Peccato che, dopo un incipit promettente, a tener viva l’attenzione rimanga solo il conteggio dei cliché sciorinati uno via l’altro.
Ad un illusorio approdo sulle rive di una riflessione sulla natura umana e sulla deriva di una società incentrata sulla produttività, infatti, subentra una trama poco fantasiosa, che scarrella senza tregua le cartucce già sparate dal cinema americano. E che, per altro, da tempo mancano il bersaglio.
Così il film lascia poco all’immaginazione ed alla suspance, trasformandosi in una storia d’amore impossibile tra la figlia di un padre ricco e arido di affettività, e un povero orfano, moderno Robin Hood. La coppia, scimmiottando le imprese sanguinarie dei meglio riusciti Natural Born Killers, diventerà così protagonista di corse contro il tempo alla guida di macchine sportive che si schiantano qua e là. Non mancano (e come potrebbero?) improbabili sparatorie, baci tra le macerie, gang multietniche di bulletti prepotenti vestiti di tutto punto e un finale dalla scontatezza disarmante. Il tutto con attori dal bel viso, ben pettinati e col fisico scolpito, affiancati da attrici bellissime in abiti provocanti. A scapito della recitazione.
Quasi irrita la leggerezza con cui, nei dialoghi e nei particolari, si toccano e poi dimenticano temi che sarebbero impegnativi ed interessanti, se non così banalizzati. Uno su tutti: le relazioni transgenerazionali.
Un film all’insegna dell’ “avrei voluto ma non ci sono riuscito”, che lascia con un quesito paradossale: se davvero il tempo è denaro, vale la pena di spendere 2 ore a guardarlo?
Carlo Garofalo