Recensione di: La maledizione dello scorpione di giada
Dopo “Criminali da strapazzo” (2000), Woody Allen torna al cinema con “La maledizione dello scorpione di giada” (2001), sua trentaquattresima opera dal budget costosissimo, 26 milioni di dollari, prodotta dalla Dream Works di Steven Spielberg. Il regista seguita quindi a sviluppare la tematica del furto ma ancor di più prosegue una fase cinematografica scevra di implicazioni filosofiche o morali ed anzi tutta imperniata sulla leggerezza e sul disimpegno. Il film è un vero e proprio tributo all’epoca del bianco e nero, un omaggio al noir anni ’40 e alle commedie sofisticate dello stesso periodo, vi ritroviamo infatti tutti i topoi che li contraddistinguono: bar malfamati, soffiate da strada, femme fatale, scommesse improbabili e persone nascoste al buio o dietro paraventi.
Un’ottima fotografia (Zhao Fei), dai colori caldi e avvolgenti, quasi seppiati, una cura maniacale per costumi e scenografie ricostruiscono nei minimi particolari l’atmosfera fumosa di una New York anni ’40, in cui C.W.Briggs, impersonato da un Allen che finalmente può vestire i panni del suo mito Humphrey Bogart, è l’investigatore di punta di un’agenzia assicurativa. I successi passati non gli sono d’aiuto nei rapporti con l’odiata Betty Fitzgerald (Helen Hunt), assunta dal capo (Dan Aykroyd), con cui intrattiene segretamente una relazione, come esperta nel campo dell’efficienza. Durante una cena per il festeggiamento di un collega i due vengono scelti tra il pubblico per partecipare ad un esperimento di ipnosi, una volta risvegliati saranno ancora soggiogati a loro insaputa dallo stesso illusionista, che li costringerà a rubare gioielli presso i clienti della compagnia assicurativa per cui lavorano. Cominciano le indagini e quindi gli equivoci, in un gioco serrato in cui i due protagonisti arriveranno ad investigare, dubitare e sospettare l’uno dell’altro come papabili colpevoli degli incredibili misfatti.
Accanto a Betty, donna in carriera simbolo di una emancipazione che incomincia a far capolino nella società americana del tempo, sfilano una serie di personaggi femminili, su cui il regista pone come al solito grande attenzione, tanto da farne, seppur ottimamente inseriti nel genere, degli archetipi quanto mai attuali, spicca su tutti naturalmente la bella Charlize Theron, in un ruolo, quello di femme fatale abituata a infilarsi nei letti di sempre nuovi amanti, che sembra fatto apposta per lei, ma non possiamo non citare il cameo di Elizabeth Berkley nei panni di Jill, ragazza piena di fascino e carica seduttiva che si ritrova immancabilmente alle prese con una vita sentimentale arida e poco soddisfacente.
Furti, amore e magia sono quindi le componenti di una storia godibile e divertente che svaria dal giallo alla commedia romantica, e che il regista, pur non essendo nel suo periodo più brillante, riesce a tenere sempre accesa grazie ai dialoghi, le frecciate e le battute tra i due protagonisti. L’ipnosi viene scelta come modo attraverso il quale guardare la realtà, assistiamo infatti sul piano degli episodi ad una variazione sul tema del contrasto tra mondo concreto e immaginario, che si rispecchia poi in quello della dissimulazione sul piano dei rapporti umani e sulla complessità dei sentimenti, temi che come sappiamo sono sempre cari ad Allen.
Woody, va detto, in altre occasioni è stato forse più originale, eppure i colpi di scena, le situazioni comiche e surreali che anche qui riesce a creare riescono a farci passare un’ora e quaranta all’insegna del divertimento e della spensieratezza, senza mai farci abbassare l’attenzione, lo stesso happy end, in fondo prevedibile sin dall’inizio, viene giocato con grande maestria risultando incredibilmente non scontato.
Daniele Finocchi