Recensione di: Magic Valley

Raccontare la provincia americana ti pone di fronte ad una sfida non indifferente: cosa raccontare e come. La realtà rurale degli Stati Uniti, fatta di solitudini, spazi enormi, piccoli gesti quotidiani, ripetitivi, morti, è stata più volte sviscerata in tutti i suoi aspetti. Magic Valley, opera prima di Jaffe Zinn, racconta questa verità con semplicità e senza strafare, condividendo con lo spettatore una visione quasi “casalinga”, intima, di quel microcosmo così lontano ed incomprensibile. È una calda mattina d’ottobre come tante nella tranquilla cittadina di Buhl, nell’Idaho, ma per molti dei suoi abitanti sarà una giornata davvero particolare. Un allevatore di pesce trova i suoi animali avvelenati da un vicino egoista, lo sceriffo trascura i suoi doveri e usa l’auto di servizio per scopi personali, un paio di bambini scelgono uno strano gioco nei campi soleggiati. Sarà un giorno diverso soprattutto per TJ Waggs, uno studente di scuola superiore che porta sulle sue spalle il peso di un terribile segreto. Al suo debutto, Zinn, decide di raccontare i luoghi in cui è cresciuto, focalizzando l’attenzione su come anche la più banale delle giornate, possa cambiare la vita di qualcuno. Benché sia lodevole la linearità della storia, l’eccessivo manierismo dell’inquadratura non consente un’immersione totale in un film che assomiglia, forse un po’ troppo, alle parabole esistenziali di Alejandro González Iñárritu. Come spesso accade nelle opere prime, il punto sul quale si inciampa è, proprio, una visione poco originale del racconto e il buttarsi appena “nati” in una narrazione semi-autobiografica, può sembrare un’ancora di salvataggio, ma invece, se usata indebitamente, rischia di appiattire il risultato finale.
Serena Guidoni