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Recensione di: Persepolis

 

Tra silhouette nere come la pece, gli occhi bianchi delle maschere antigas, le nere sagome dei carri armati che inghiottono tutto, si consuma la tragedia dell’Iran. La figura di Marjane è quella di un Peanuts costretto a crescere tra la rivoluzione e la guerra, l’Europa e il ritorno a casa, nella frustrazione di una libertà cercata e mai ottenuta. Ma è libertà in senso metastorico, non è libertà di essere donna o libertà dell’Iran in sé, sebbene siano parte di quel difficile percorso che Marjane ha dovuto affrontare fin da piccola, attraverso la sfida più difficile, quella con se stessa. “Non dimenticare chi sei” le ripetono: l’accettazione dell’essere se stessa, la ricerca dell’integrità personale avviene sullo sfondo della Storia, in tutta la sua bidimensionalità tridimensionale. L’animazione conferisce allo stile neopersiano di Marjane Satrapi una tridimensionalità straniante, da cartolina magica: la Storia agisce in profondità in tutti i sensi, a livello tecnico, di stile, di narrazione, di cinema in quanto tale. La Storia è veicolo e fine: trait d’union eccellente tra il passato e il presente.
Ma se la Storia è tale è perché il cinema ha in se la vocazione alla Storia; seppur nella linearità didascalica  a tratti eccessiva della narrazione, la parabola di Marjane è il filo rosso sul cui sfondo affiora il fuoricampo che è Storia, ma anche metastoria. (Meta)storia travestita da narrazione di formazione classica e viceversa, Persepolis si risolve nell’armonico oscillare di questo pendolo in un alternarsi perfetto di dramma, commedia, tragedia, lacrime e risate, poesia visionaria e inni alla libertà universale. Il 2D si emancipa definitivamente dalla schiavitù autoimpostasi del 3D, facendolo diventare mezzo e non più fine – come nelle recenti produzioni Dreamworks – e si riafferma come mezzo principe del cinema d’animazione riportando l’Europa e il Medio Oriente in prima linea, accanto ai maestri dell’estremo Oriente. Commuove e diverte, incanta nelle sue impostazioni visionarie e con le sue tonalità di grigio tratteggiate e contenute nel secco bianco e nero: Persepolis è cinema in quanto contenitore non solo della Storia tout court ma della storia dell’arte tutta (le citazioni vanno da Munch a Picasso), a dimostrazione che l’animazione non è una branca minore del cinema, ma anzi è in grado di dire più di qualsiasi pseudo-documentario o libro stampato. Guardate Persepolis: chi avrà il coraggio di chiamarli solo cartoni animati, dopo?

Lorenzo Conte

 

 

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