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Recensione di: Pink Subaru

Un’automobile nuova, lucida, fiammante. Per molti abitanti delle cittadine arabo-israeliane o palestinesi che si trovano al confine con il turbolento territorio della West Bank possederne una è un sogno. Così il desiderio si realizza per Elzober, vedovo quarantacinquenne padre di due bambini, che dopo vent’anni di lavoro come cuoco in un sushi-bar di Tel Aviv, riesce ad acquistare l’auto desiderata, una nuovissima Subaru Legacy nera metallizzata. Dopo aver portato l’auto nella cittadina arabo-israeliana di Tayibe ed aver festeggiato l’evento, il mattino dopo scopre che è stata rubata. Elzober piomba nella disperazione coinvolgendo tutta la comunità di amici e parenti. Ma una scomoda verità viene a galla, l’auto non era ancora stata assicurata perché la venditrice aveva rimandato di poche ora la stipula della polizza. Tutti cercano di aiutare Elzober, in primo luogo sua sorella Aisha, poi Mahmoud, ex ladro d’auto, Jameel, il buffone della compagnia, Dani, il proprietario del ristorante in cui lavora, Sakura una ragazza giapponese sua collega nel sushi-bar, Jordan ed Esther una coppia di ebrei sefarditi. E così tra sfasciacarrozze, ladri, maghe, anziani zii, Elzober compie un viaggio disperato e comico insieme fino alla sorpresa finale. Tutti si ritroveranno nella città palestinese di Tulkarem attorno a una Subaru di color rosa.
Pink Subaru è una commedia multietnica in tutti i sensi, diretta da Kazuya Ogawa, un giapponese residente in Italia, scritta dal regista insieme a un arabo israeliano (Akram Telawe che è anche l’attore protagonista) e all’italiana Giuliana Mettini. Una specie di cooperativa multirazziale che ha lavorato con grande spirito di gruppo: produzione italo-giapponese, cast tecnico metà italiano e metà giapponese, collaboratori palestinesi e israeliani. La distribuzione ha deciso, con scelta coraggiosa, di conservare questo livello di multiculturalità distribuendo il film in lingua originale perché nel doppiaggio si perderebbe il miscuglio di lingue parlate che è il suo tesoro maggiore (come ha ricordato il produttore non c’era una lingua comune nemmeno sul set!)
L’idea che il film vuole restituirci di Palestina e Israele è lontana da quella che abbiamo dai telegiornali, perché, ha ricordato la sceneggiatrice, in un paese in guerra esiste la vita. Lo stesso regista ha dichiarato che i fuochi d’artificio (per la prima volta scambiati per bombe) sono state le uniche esplosioni che lo hanno accompagnato durante il suo soggiorno in quei territori.
Una commedia originale che a tratti osa parecchio mescolando realismo e inserti onirici, ma pregevole per gli intenti e tutto sommato piacevole. Il sogno è il leitmotiv di tutto il film. Il sogno è una nuova Subaru, il cui simbolo è (guarda caso) la costellazione delle Pleiadi, la casa automobilistica più diffusa nei territori palestinesi a partire dagli anni Settanta quando gli altri marchi erano restii a commercializzare le loro auto in quelle terre (oggi sono ancora moltissime le vetture rubate a Tel Aviv e ritrovate in Palestina). La scelta del giovane regista nipponico di mettere al centro della sua storia un oggetto fortemente simbolico come l’auto si è rivelata felice. L’auto è come una bella donna e il protagonista la tratta così. Quando la guida per la prima (e unica) volta, Elzober la accarezza, la bacia, le sussurra parole dolci, ci si sdraia sopra come se ci facesse l’amore. E in sogno la vettura gli apparirà come una provocante ragazza vestita di nero in riva al mare.
La scelta del colore rosa è l’ovvia metafora che domina il finale, con l’auto che ricompare a sorpresa (e con un colore diverso) dopo mille peripezie. Così come scoperto è il simbolismo di oggetti feticcio disseminati qua e là, come gli slip rosa capitati per sbaglio nelle mani del protagonista e l’abito rosa indossato nelle scene finali dalla ragazza giapponese.
“Hanno rubato il mio sogno” dirà il protagonista disperato. Ma tutti lo aiuteranno a ritrovarlo in questa strana comunità dove non si bada troppo alle differenze di lingua e religione. Noi possiamo augurarci che territori così tormentati da un’eterna guerra più spesso vengano mostrati come in questo film, nei loro stralci di vita quotidiana, liberi da check-point e carri armati.
Il sogno deve rimanere vivo, il futuro può essere rosa, in fondo non costa nulla immaginarlo così.

Elena Bartoni

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