Recensione di Suburbicon – Venezia 74
Dopo diversi anni d’assenza, ritorna alla Mostra del Cinema di Venezia, George Clooney nelle vesti di regista e co-sceneggiatore con i fratelli Ethan e Joel Coen, per una commedia nera, che ricorda molto lo stile dei due. È l’America la vera protagonista del film, quella degli anni ’60, ma un po’ anche quella attuale, fatta di diversità, condanna ad esse e di panni sporchi che… a volte è difficile lavare in casa!
La Suburbicon del titolo è una pacifica e idilliaca comunità periferica caratterizzata da case a buon mercato e giardini ben curati… il luogo perfetto dove crescere una famiglia bianca. Ed è esattamente quello che stanno facendo i Lodge nell’estate del 1959. Tuttavia, l’apparente tranquillità cela una verità inquietante: il marito e padre Gardner Lodge (Matt Damon) è costretto a farsi strada nel lato oscuro della città, fatto di tradimento, inganno e violenza. Accanto a lui Rose, la moglie, Margaret, la cognata (entrambe interpretate da Julienne Moore) e il figlio Nicky (Noah Jupe).
Gli Stati Uniti delle contraddizioni, delle coincidenze e delle disuguaglianze, ma anche l’America primordiale, istintuale, che vive la presunta quotidianità celando all’interno delle proprie abitazioni un mondo segreto e a dir poco agghiacciante. Difficile dare un giudizio sulla nuova fatica di Clooney come regista, senza accennare qualcosa sul film. Allo stesso tempo, raccontare ed addentrarsi nella storia di Suburbicon, significherebbe rovinare la sorpresa allo spettatore.
Non rimane che dire, come l’abilità di Clooney e dell’amico e produttore Grant Heslov, sia stata quella di trasformare, anzi trasporre la satira sociale pensata dai Coen già negli anni ’80, ad oggi. Perché sebbene il film sia ambientato negli anni Sessanta, periodo di agitazioni sociali, di disuguaglianze e violenza contro gli uomini di colore, l’attualità americana deve guardare alle recenti schermaglie verbali e fisiche di Charlottesville.
Una famiglia nera è il perfetto McGuffin, “l’oggetto” che distrae, lo spettatore e il pubblico, da ciò che invece accade nella società bianca di Suburbicon e più precisamente nel microcosmo della famiglia Lodge. È proprio all’interno di questo nucleo che si sviluppa la vera storia avvincente del film: due uomini entrano nella loro abitazione e li prendono in ostaggio.
Da qui ha inizio tutta una serie di coincidenze, azioni e reazioni e veri e propri colpi di scena (in mezzo anche a scene prevedibili), che danno il giusto ritmo al film, una commedia nera tipica dello stile degli sceneggiatori, che si arrovella, cade nel turbine vertiginosa della violenza, facendo divertire e allo stesso tempo stupire.
Come l’interpretazione del giovane Noah. Il film viene in gran parte raccontato dal suo punto di vista, quello ingenuo, genuino e veritiero di un bambino; lui rappresenta il futuro, la speranza di un’America che nell’alba del giorno dopo, riesce a pensare positivo, a vedere uno spiraglio.
Intrattenere il pubblico e farlo guardare al di là delle barricate e delle staccionate casalinghe, è questo lo scopo di Suburbicon, la rivelazione e il nuovo e riuscito film di Clooney, che riesce a coinvolgere lo spettatore fin dall’inizio, regalando un’ora e quaranta di follia, satira, con un ritmo serrato e grande interpretazioni.
Alice Bianco