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Recensione di: The Dead – Gente di Dublino

Girato da uno John Houston già molto malato, costretto su di una sedia a rotellle e a un respiratore, The Dead – Gente di Dublino, ultimo film del regista statunitense, rappresenta il testamento artistico di Houston, una potente riflessione sul concetto di morte che a partire dal capolavoro letterario di Joyce delinea la summa del cinema houstoniano all’apice del dialogo tra libro e film, tra letteratura e cinema.
Gente di Dublino, il libro di Joyce da cui è tratto il film, galleria di ritratti umani spietata e lirica allo stesso tempo, è da considerarsi un testo chiave del primo novecento, l’album letterario di un’epoca alla sua fine e al contemporaneo inizio di un’altra. Di questi quindici ritratti I morti chiude la galleria. Proprio da questo ultimo racconto il film di Houston prende forma e ispirazione. Houston segue filologicamente il testo di Joyce, tanto nella scansione narrativa degli eventi, quanto nei dialoghi stessi, pressoché inalterati rispetto al testo. Ma è la regia di Houston ad avviare e ad approfondire il dialogo tra le due arti, avvicinandole in un abbraccio perfetto nella forma e nella sostanza; la camera di Houston si sofferma impietosa nei punti cardine del racconto, apparentemente tenendo le distane, in realtà zoomando sui caratteri dei personaggi, che con una leggerezza insostenibile si fanno alla ribalta dello schermo, delineandosi, all’interno della seppur gaia e compita tradizionale festa natalizia, quali i veri morti da cui il titolo del racconto e del film, cadaveri vivi, morti nel più profondo del loro essere umani, fantasmi rassegnati, soli, tristi ingabbiati nelle convenzioni e nei dettami dell’etichetta, pronti a sacrificare il loro fondo umano ad una vita rigida e insoddisfacente che trova nella routine di una vita borghese (e per estensione di un’epoca) la loro comoda bara.
Nell’alternanza di piani medi e primi piani, che domina la lunghissima sequenza della festa (che copre quasi interamente la pellicola) Houston scava impietoso nei personaggi joyciani restituendo l’essenza della prosa dello scrittore irlandese, completandola visivamente (come nella scena del canto della vecchia padrona di casa, durante la quale Houston aumenta il carico con un carrellata di inquadrature sulla camera della signora, la sua comoda bara da viva, i segni inanimati di un avita ricca nella sua apparenza, ma povera e sacrificata nella sua essenza). Ma è nelle battute finali che Houston assurge all’acme del climax del dialogo tra letteratura e cinema: i campi lunghi di Dublino e prima e di alcune zone dell’Irlanda poi, girati con una fotografia quasi onirica e irreale, splendida, pittorica, viva, alternano l’ultimo densissimo dialogo tra i due protagonisti non dichiarati della storia. L’agghiacciante racconto della donna (interpretata da una magnifica Anjelica Houston, figlia del regista) trova il suo sfogo uguale e contrario nella voce pensiero del marito (configurandosi così anche lui come un morto come gli altri, straniero in casa, fantasma senza corpo) che apre all’alternarsi di splendidi paesaggi innevati cui fanno da complementare le ultime elegiache parole di Joyce: alla fine siamo tutti già morti e non v’è differenza giacché la neve, alla fine cade tanto sui vivi, quanto sui morti, ricoprendoli, immobilizzandoli sotto il suo candido mantello.
Houston riesce così a racchiudere, in questo abbraccio perfetto tra cinema e letteratura, tanto la profonda essenza del romanzo di Joyce, quanto il suo significato più essenziale e personale che investe tanto lui, alla fine della sua vita, quanto tutti noi, ricoperti dal candido mantello della sua profonda e malinconica riflessione sulla morte: alla fine, in un modo o nell’altro, la neve ci ricoprirà tutti, senza distinzione.
 
Lorenzo Conte
 

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