Recensione di The Nightingale – Venezia 75
Ci si aspettava tanto da Jennifer Kent. Tanto perché il suo primo film, Babadook, era un piccolo miracolo del cinema di genere. Ed invece questo The Nightingale delude in tutto per e per tutto, tranne nelle intenzioni di voler spaccare pubblico e critica in un film che al di là delle polemiche legate alla proiezione che ci sono state, farà discutere e molto.
The Nightingale nasce come Rape and Revenge movie (e già qui le discussioni si potrebbero aprire su un espediente narrativo ormai usurato da cinema e letteratura) e non riesce a discostarsi dai cliché e dalla voglia della stessa regista di creare qualcosa di nuovo senza però riuscirci.
La Kent vuole raccontare dell’oppressione, vuole raccontare della violenza perpetrata sulle donne e i neri, ma lo fa con una retorica fastidiosa che non riesce a regalare niente di nuovo al cinema di genere, riuscendo a mettere alla prova i nervi dello spettatore.
Possiamo sorvolare sulla scelta di regalare con una certa gratuità la violenza e le scene di stupro continue, anche perché il genere rape and Revenge parte proprio da questi presupposti, quello per cui non possiamo sorvolare è il fatto che poi questa vendetta non arrivi, lasciandoci un po’ a bocca asciutta. Alla sua protagonista la Kent non regala quella furia vendicatrice che ci si aspetterebbe e per la quale carica il pubblico per tutto il film, ma il suo “usignolo” sembra perdere forza scena dopo scena, sembra vinta dalla paura e la scelta di combattere il male con il perdono e la comprensione, sa di forzato e in questo caso, poco utile al fine della storia.
Questa scelta poi si trasforma in espediente narrativo che permette alla Kent di allungare il brodo, trasformando The Nightingale in un prolisso film ricco di cliché al quale sembra mancare quel coraggio di osare di più, di andare oltre alla pura violenza e regalarci qualcosa di più psicologico come in Babadook. La sua bravura nel dirigere e la sua sicurezza dietro alla macchina da presa dal punto di vista tecnico, però, ci fanno ben sperare.
Sara Prian