Recensione di: Un giorno della vita
Giuseppe Papasso, affermato documentarista (“Berlino: il muro della vergogna”, 1987) e regista di spot pubblicitari, è alle prese con il battesimo del fuoco: l’opera prima. Questa creatura, da preservare e custodire, porta con sé tutta una serie di insidie; minacce che rischiano di farti cadere in delicati tranelli. Tra tutti in testa alla lista troviamo il citazionismo, che molto spesso porta inevitabilmente fuori strada. L’intento del film è nobile e onesto, ma il cinema “antico” di Giuseppe Tornatore, condito dalle musiche di Paolo Vivaldi, che nonostante l’ottimo lavoro, peccano di troppa somiglianza con le composizioni di Ennio Morricone, rendono “Un giorno della vita” un film ripetitivo e a tratti scontato. Quell’aura di favola che dovrebbe essere l’elemento fondante della pellicola, non trova il giusto compimento in scelte narrative ed inquadrature tendenti al plagio. La camminata di “Malena”, i sogni infranti e ritrovati di “Nuovo Cinema Paradiso”, le campagne afose di “Io non ho paura”, la disputa politico/religiosa di “Don Camillo e Peppone” vengono riproposti in maniera talmente palese, da far perdere di vista dinamiche e situazioni che vorrebbero essere originali. Nella Basilicata del 1964 il dodicenne Salvatore finisce in riformatorio a causa della sua divorante passione per il cinema, che lo spinge a raggiungere ogni giorno in bicicletta il paese vicino per poter assistere ai film di una saletta di terza visione. Salvatore deve poi affrontare quotidianamente l’ostilità di suo padre, un contadino comunista che vede come fumo negli occhi la passione del figlio. Sullo sfondo i funerali di Palmiro Togliatti, la ritrosia dei “vecchi” nei confronti del cinematografo, le salette parrocchiali che si aprono a Charlie Chaplin, un Sud che parla una lingua desueta, il tutto all’interno di un corollario di luoghi comuni quali la subordinazione dell’uomo sulla donna. Tutto questo avrebbe senso se il film non eccedesse nella linea narrativa del “già visto”…
Serena Guidoni