Recensione di: Vento di primavera
Estate 1942. Il governo collaborazionista di Vichy rastrella le strade di Parigi per consegnare i primi ebrei francesi ai nazisti. I 13,000 vengono confinati dapprima nel velodromo d’Inverno e poi al campo d’internamento transitorio di Bearne-La-Rolande (dal quale verranno poi deportati fino ai campi di sterminio in Polonia); il film segue una famiglia delle centinaia deportate in quella estate.
Il film, diretto dalla regista francese Rose Bosch cerca di gettare luce su un fenomeno tanto ovvio quanto rifuggito dai governi dei paesi coinvolti, ovvero la corresponsabilità delle nazioni occupate (o meno, come l’Italia) alla soluzione finale progettata da Hitler. E la regista certo non si tira indietro: le divise francesi sono quasi più di quelle tedesche, spietate e crudeli quasi quanto le SS, picchiatori senza se e senza ma, per un se o per un ma. Impossibile non impressionarsi – o commuoversi – per quanto la Bosch riporta sullo schermo, dalla terribile scena del rastrellamento, all’impressionante apertura di Dolly sul velodromo d’Inverno pieno di deportati.
Ma l’impressione è che ben poco c’entri per una volta, il cinema, e che tutto dipenda dalla terribile verità dei fatti storici, la quale crudezza ed efferatezza farebbero commuovere chiunque anche al solo sentirli raccontare. Non deve, però, forse essere questo il compito di un film sulla Shoah (e non olocausto che ha, bensì a che fare con il sacro)? In parte: dovere sarebbe andare davvero in fondo alla questione e non semplicemente, con ingenua quanto infantile geometria, dividere tutto tra buoni e cattivi, tra nazisti e ebrei, tra francesi collaborazionisti e non, alternare con brevissimi flash le vicende dei deportati con le estati dei potenti (Pétain e Hitler) nel tentativo (vano se il tutto viene ridotto a pochi secondi di pellicola intermezzati di tanto in tanto) di “smascherare” i supercattivi.
In questo caso il coinvolgimento emotivo della regista risulta essere dannoso per il cinema: esso distorce la realtà e banalizza (in senso negativo, affatto harendtiano, che in ogni caso rischia di esserlo a sua volta) il male riducendolo a bianco e nero, incorniciato in un tripudio di battute-tesi cristallizzate nei dialoghi e fin dentro la narrazione stessa (la corsa del bimbo al convoglio, la panettiera collaborazionista, i condomini che aiutano gli ebrei, l’infermiera che redarguisce i poliziotti, i pompieri eroi, le parentesi di hitler e Pétain).
Ovunque nel film, nella sinossi, sulla locandina, in conferenza stampa si ripete che è tutto vero, ogni singola immagine. È forse questa ossessione per ciò che è vero, ripetuto come un mantra, a danneggiare di più il cinema, aprendo ad un coinvolgimento emotivo che nasconde ulteriormente il fondo umano del punto di non ritorno dell’umano stesso. È questa commozione facile, questa cristallizzazione della Storia che continua a velare ciò che con dolore andrebbe svelato, andando sempre più a fondo negli inferi della Shoah stessa. E invece le domande sono coperte dal singhiozzare e dalle lacrime (reali o cinematografiche che siano), impedendo al cinema di fare il suo straziante e necessario dovere (finzionale) nei confronti della verità.
Lorenzo Conte