Recensione di: X-Men le origini: Wolverine
Quella degli spin-off e dei prequel, ormai è una “moda” cinematografica che coinvolge e cattura non solo ed esclusivamente il filone dei cinecomics. Ma in questo caso le vicende di James Howlett detto Logan, in arte Wolverine, supereroe atipico dall’artiglio adamantino della saga fumettistica dei mutanti “X Men” (forse la più interessante e psicologicamente complessa targata Marvel), è una di quelle storie che vale la pena raccontare. Hugh Jackman, che torna a vestire i panni dell’antieroe dalla ferocia disumana, dagli artigli retrattili e dal potere di rigenerarsi, è qui anche appassionato e instancabile produttore del film. Precedendo gli eventi della Trilogia degli X-Men, “X-Men le origini: Wolverine”, diretto dal regista Gavin Hood, premio Oscar nel 2005 per “Il suo nome è Tsotsi”, racconta il violento passato del più amato fra gli outsider, del suo amore per l’indiana Kayla Silverfox (Lynn Collins), della sua complessa relazione con il fratellastro Victor Creed (il mutante Sabretooth interpretato da un “colossale” Liev Shraber), e del programma Arma X per la creazione dei supersoldati, ideato dall’ufficiale/scenziato pazzo William Stryker (Danny Huston), archetipo del malvagio-intellettuale, responsabile della “trasformazione” degli artigli di Logan da ossei a metallici. Ed è proprio il rapporto complesso ed intricato fra Wolverine e Stryker ad essere al centro di questo film, perché in fondo è alla base di buona parte del passato (e del futuro) di Logan. Durante il percorso, Wolverine incontra molti mutanti, sia familiari (ai più esaperti del fumetto) che nuovi, incluse apparizioni sorprendenti di numerose leggende dell’universo X-Men. Nel film assistiamo alla spasmodica ricerca delle radici del suo essere “diverso”, dove il bisogno di verità va a braccetto con il desiderio di vendetta. Se i primi due episodi della saga degli X Men, diretti da Bryan Singer, facevano leva su argomenti quali il pregiudizio e la tolleranza nei confronti del diverso, allo stesso tempo il “biopic” dedicato a Wolverine ne sottolinea gli aspetti più emotivi, il conflitto interiore che non concede tregua e il vivere i propri poteri come una sorta di sventura che relega a ruolo di emarginato dalla società. Il suo rancore esistenziale è giustificato da una serie di traumi che lo rendono un personaggio sensibilmente più drammatico e complesso rispetto ai suoi “fratelli” supereoi. L’essere un mutante ulteriormente geneticamente modificato lo colloca al di fuori della normale spirale autocommiserativa (vedi Peter Parker nel secondo episodio di “Spiderman”), per imprimersi di un’umanità reale e speciale allo stesso tempo. L’aspetto più interessante è il scoprire insieme a Wolverine le sue origini che nei film precedenti erano velate di mistero. Wolverine è un eroe solitario a tutti gli effetti, un personaggio la cui ambiguità lo porta ad essere in continua lotta con la propria natura. Le scene d’azione, se pur mirabolanti nei loro effetti speciali, non risultano mai finalizzate al solo piacere per gli occhi, poiché gli sviluppi psicologici che sottendono al racconto, costituiscono una dinamica stimolante da esplorare. Sarà per questo che la famosissima rivista spezializzata Wizard ha collocato Wolverine al primo posto nella classifica dei migliori 200 personaggi dei fumetti di tutti i tempi? Noi crediamo di si!
Serena Guidoni